sabato 5 giugno 2010

Patrie impure I - Maiali, di Antonio Moresco


Patrie impure è un titolo di aspra bellezza. C’è la nobiltà delle “patrie” per cominciare. Che è pur assai diversa dalla “patria” indistinta, che ci rammenta il difficile cammino verso un’identità condivisa e condivisibile e l’inevitabile differenza che permane tra le idee, le raffigurazioni mentali di ciascuno di noi. E ci sono la sincerità e la ruvidezza di quell’”impure”; perché non è mai un bene chiudere gli occhi: che queste nostre patrie italiane siano bastarde o imbastardite è appunto sotto gli occhi di ognuno. A patto di volerli aprire e tenere aperti. La verità è ruvida, scomoda; la sincerità è impura nel suo non curarsi di assumere una forma depurata da asperità e studiata per non provocare turbamenti in anime assopite. Ma riconoscere che viviamo nel ventre di patrie impure è invece il passo necessario per amarle e desiderarne un mutamento culturale e civile, la costruzione di un edificio infine condivisibile e libero.

Una voluminosa antologia di racconti “impegnati” è un grosso rischio. Intanto perché impegnati e quindi militanti. E quindi in opposizione a quel disimpegno altrettanto militante – e tanto più facile da accogliere – che è lo strumento etico ed estetico attraverso il quale è attuato il governare appecoronando. Perché insomma c’è un rifiuto a chiudere gli occhi e il coraggio di scegliere. Nel 2003, quando l’antologia appare, la società, la politica, l’economia italiane non sembrano ancora aver raggiunto quel grado di decomposizione al quale siamo arrivati ora; ma basta far mente locale e dobbiamo arrenderci alla realtà che si trattava di pura illusione.

Altro rischio è quello che si corre nel mare delle librerie e del pletorico flusso di libri, per lo più inutili, che circonda il lettore: l’invisibilità. Confesso che sette anni or sono non mi avvidi proprio di questo libro. Poi qualche settimana fa me lo ha restituito la generosità di una bancarella romana. Mi colpiscono quel titolo, l’eleganza così essenziale della copertina di Lorenzo Mattotti (presente anche all’interno, dove due dei racconti sono a fumetti, per i suoi disegni appunto). Mi colpisce la promessa del coro di voci, oltre quaranta racconti dei più vari scrittori. L’assunzione di un programma tanto difficile: tentare un ritratto delle Italie contemporanee.

Come amo spesso fare con volumi di questo tipo attacco alla rinfusa, con l’intenzione di leggerne quando e come capita.

Maiali è il secondo racconto del libro. Diviso in due nettamente. Nelle prime pagine Antonio Moresco si abbandona alla durezza senza sconti dell’invettiva. Con un’amarezza e perfino una rabbia, non mai disgiunte dalla lucidità, ci racconta un’Italia che vediamo ancora adesso, in ogni momento delle nostre giornate. Le piccole e grandi rapacità degli affari e dei vari reggitori della macchina statale. I servilismi che corrodono il senso civile (se mai lo abbiamo avuto). L’ignoranza, specie quella orgogliosa di sé, che informa la vita spirituale. Lo sgretolarsi, il venir meno delle promesse – non soltanto in Italia, certo – di quel cammino della democrazia iniziato più di due secoli fa e che ora appare destinato a spegnersi nella cristallizzazione dei propri riti (elettorali) svuotati di ogni vera sostanza.

Il lamento per i tempi andati appartiene a ogni epoca; però Moresco non si limita e non ci limita alla lamentazione nostalgica, che è tratto quasi genetico dell’uomo e posa letteraria. Quando cita Walt Whitman che descrive gli Stati Uniti del suo tempo ci basterebbe sostituire a essi l’Italia di oggi per avere un ritratto fedele della nostra realtà. Eppure Moresco va oltre la posa moralistica, trasversale alle epoche storiche, e ci incita a cogliere il nucleo fruttuoso di questa pratica che spesso è sterile: la funzione della memoria. E’ proprio la memoria, la merce più rara se ci guardiamo d’attorno, a porre il discrimine tra sterile e fecondo. La memoria, come è nel Whitman citato da Moresco, è il solo strumento del nostro pensiero critico che sia necessario e sovraordinato a ogni altro: perché è attraverso di essa che possiamo operare confronti, distinzioni, scelte libere e consapevoli. Se l’invettiva del moralista si risolve nel pensiero che tutto va male comunque, che la natura umana è immutabile, sarà stata sterile. Se invece  ci permette e anzi se ci stimola – o ancor meglio se ci forza con violenza – a riflettere sui tempi che viviamo, sulle differenze e sulle analogie con altri, sulle prospettive future e su quelle storiche – se insomma ci costringe a esercitare la funzione critica della memoria – allora avrà avuto un senso. Allora potremo accorgerci come la riduzione a un eterno presente della nostra storia e della nostra vita sia stato e sia ancora lo strumento cardinale del potere politico, mediatico e culturale degli ultimi trent’anni. Se ieri non è più distinguibile da oggi non perché indistinguibile ma perché rimosso, allora è orwellianamente possibile l’infinita ripetizione delle promesse e dei tradimenti; la fungibilità degli opposti; la demonizzazione della funzione critica; lo svilimento e la banalizzazione dello strumento principale del pensiero, cioè la parola, oppure il suo uso terroristico in costrutti verbali privi di senso reale. La colpevolizzazione della memoria storica quale fosse il rifiuto astioso di una ricomposizione civile rimuove il nostro ieri e impedisce di ricomporre il presente attraverso la comprensione del e la connessione con il passato; permettendo in tal modo di condurre il gregge nazionale al pascolo prescelto. E poi al macello.

Tutto questo Moresco, non a caso, lo suggerisce, lo mostra, a tratti lo urla, proprio attraverso il ricordo. Raccontandoci di sé stesso che ricorda. L’eleganza della sua scrittura non ha nulla di asettico, e anzi è diretta e petrosa; è scabra ed energica. La limpidezza non ha nulla della trasparenza di un fragile cristallo, ma se mai di un diamante incolore.  

La seconda parte del racconto si apre sui maiali del titolo. Veri e propri inizialmente, poi giungeranno anche quelli metaforici.

Moresco allarga la funzione della memoria. Passa dalla memoria personale a quella condivisa, individua un momento della nostra storia dove la smemorizzazione mediatica dell’informazione ha le sue radici più forti. Un evento seminale per la spettacolarizzazione televisiva della vita e della morte; per la creazione di un immaginario dove gli opposti sono fungibili, il presente è totalizzante, il dolore è ridotto a una funzione circense, e il pubblico (non solo) televisivo si muta in platea indistinta di fan dei volti televisivi. Qualche anno dopo, nel voluminoso romanzo Dies Irae, anche Giuseppe Genna, presente in questa antologia con un suo racconto, porrà la lunga diretta dal pozzo nel quale era caduto il piccolo Alfredo Rampi come spartiacque culturale dell’Italia contemporanea.

Vediamo così i maiali del genere Sus scrofa assieparsi sul bordo del pozzo, e poi sostituiti da maiali diversi, stazionati in posa eretta. Moresco lascia il 1981 e l’evento reale per immaginare cosa avverrebbe se esso si ripetesse oggi (cioè nel 2003). Per mostrare l’accorrere e l’accalcarsi dei teatranti televisivi - che siano facce politiche o dell’informazione o dello spettacolo, o ancora l’immancabile prete - attorno al fatto eclatante una volta di più occasione per mettersi in mostra, per sfruttare e soggiacere alla realtà e alle necessità dell’eterno presente televisivo nel quale è stata trasformata l’Italia. Per mostrarli nel loro intralciare i soccorsi. Per mostrarci la nostra realtà di parassiti emotivi.

Poi, con un ultimo balzo della fantasia, Moresco ci trasla nel puro immaginario, dove l’allegoria però si completa e si compie, passando dalla raffigurazione all’interpretazione e progettazione della realtà. Vediamo il bambino dentro il pozzo parlare con ciò che è in alto (l’immancabile pretone, l’immancabile politicone) e ciò che in basso (un Dio che gli si presenta ctonio). A tutti loro che lo esortano a uscire fuori dal pozzo il bambino chiede perché dovrebbe: “perché qui è più bello” è la risposta, che non ha ulteriori spiegazioni. Ma le affermazioni di notorii falsarii a quanto pare non convincono il bambino. La natura, sotto forma di una formica e un lombrico non gli nascondono e anzi gli rammentano che lì, sotto terra, è freddo. Eppure il bambino non intende salire. Rifiuterà di uscire dal grembo della terra, rifiuterà di nascere. E’ una conclusione in apparenza amara, disperata. Che però dovrebbe anche scuotere. Quel bambino là sotto la terra, nel grembo dell’Italia c’è, ed è vivo. E’ un futuro che rifiuta la realtà di un presente al di sotto di ogni civile aspettativa. E’ un futuro che, ci dice Moresco, va convinto a nascere con il rifiuto di questo presente che ha abdicato alla memoria.

    

Nessun commento:

Posta un commento