domenica 22 agosto 2010

La carità che uccide – di Dambisa Moyo


Il tema di questo libro è senza dubbio visto come "controverso". In realtà, controverso lo è solo ai nobili occhi foderati di prosciutto buonista di troppi cittadini occidentali (in tal modo manipolabili e manipolati dai titolari di interessi che proprio nobili non sono, a partire dai loro stessi governi). Dambisa Moyo si limita, a mio giudizio, a esporne la logica in modo implacabile. Il che non è poco. Anzi è davvero molto, dal momento che nessuno lo ha detto in precedenza meglio di così e con altrettanta convinzione. E' un libro non solo da leggere, ma da meditare. 

La carità fa male, e quella eccessiva lo fa eccessivamente. Il tema è questo. E non è tanto il supporto di cifre, report e quant'altro a rendere il libro davvero assertivo: è la narrazione logica e piana di un ragionamento basato sull'osservazione di sessant'anni di politiche fallimentari che hanno inondato l'Africa di denaro creando una classe parassitaria (non solo africana, per altro, e l’autrice lo sottolinea) che sugli aiuti occidentali prospera rubandoli, drenando ulteriormente le risorse, moltiplicando le occasioni di conflitti che destabilizzano il continente. Divenuti voce stabile del bilancio delle nazioni africane gli aiuti, provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale rappresentata da FMI e Banca Mondiale, hanno naturalmente soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo di una classe di piccoli e medi imprenditori locali e di una classe media tout court. Dopo sessant'anni di aiuti, l'Africa è parecchio più povera di allora (e già allora era probabilmente più povera di quando si scatenò l'ondata colonialista nell'800). Sulle cause di questa persistenza in una politica fallimentare l’autrice è però reticente. Omette di rilevare come essa non sia soltanto utile alle corrotte classi dirigenti delle nazioni dell’Africa sub-sahariana e alla pletora di attori occidentali coinvolti a vario titolo nel business degli aiuti. Il flusso costante, poderoso e a oggi inarrestabile degli aiuti internazionali all’Africa è stato il pugno di ferro rivestito di morbido velluto con il quale le nazioni occidentali hanno continuato a esercitare la tutela e lo sfruttamento dell’epoca coloniale. Le nazioni asiatiche, che avevano già o avevano già avuto infrastrutture economiche e finanziarie funzionati sono riuscite o stanno riuscendo a liberarsi della tutela. 


Se l'individuazione del problema resta cristallina al di là dell’omissione, ed esposta con accuratezza e spietatezza, qualche perplessità me la lascia il ventaglio di soluzioni proposte. La fiducia che la dottoressa Moyo ripone nei meccanismi (diversificati e molto acutamente selezionati per altro) di mercato che indica, è scontata e naturale in una ex consulente della World Bank ed ex funzionaria Goldman-Sachs, ma ugualmente essa è eccessiva. E' pur vero che ben difficilmente qualcosa potrebbe essere peggio della continuazione dell'attuale status quo, e che probabilmente una sorta di terapia intensiva è necessaria per salvare da morte certa il paziente comatoso. La stessa autrice appare in effetti consapevole che quanto propone non è il santo graal, ma la ormai vitale e non più rimandabile medicina per la sopravvivenza: non resta proprio più altro. Quando il moribondo sarà uscito dal coma, quando cioè la sua classe dirigente parassitaria sarà stata falcidiata, la corruzione limitata, posto in grado di funzionare il minimo di infrastrutture (sia produttive che sociali) necessarie allo sviluppo - quando tutto questo sarà avvenuto, allora si potrà e dovrà tornare a discutere. Dovranno farlo gli africani, cioè.




Ah, su una cosa la dottoressa Moyo ha ASSOLUTAMENTE ragione: se in occidente continueremo a baloccarci con le cazzate, in pochi decenni la Cina, con il suo approccio pragmatico all'economia africana e che sta pure funzionando molto meglio del nostro nel favorire lo sviluppo economico africano (approccio che seppure in ritardo l'India pare decisa a seguire) spazzerà via l'influenza occidentale in Africa. E l'Africa è un'arca di risorse...

venerdì 9 luglio 2010

NO BAVAGLIO! - No al DDL sulle intercettazioni

Pellizza da Volpedo - Il Quarto Stato

mercoledì 30 giugno 2010

Bus readings I - per leggere in ogni momento


La lettura è in primo luogo un amore, non ci piove. Amore per le storie, amore per le parole. Amore per i libri. Può essere anche tante altre cose naturalmente. Anche una fuga, certo. Fuga dalla realtà, ri-certo. E’ però una realtà specifica quella a cui penso. Quando in autobus (o in treno) cominciano a volare i “signora mia”, o siamo stati abbastanza previdenti da portare con noi un libro oppure è inevitabile cominciare a elaborare ingegnosi metodi di omicidio (o suicidio, dipende dalle inclinazioni personali). Siate preparati, insomma, abbiate con voi delle letture adatte alla bisogna. Intendo adatte non per gli argomenti, quelli ognuno se li sceglie, ma proprio adatte al luogo e alle condizioni di lettura. Quali che siano le nostre inclinazioni, diventa difficile portarsi da leggere in autobus It di Stephen King oppure Infinite Jest di David Foster Wallace: meglio lasciarli per il treno. Sull’autobus si può essere costretti a richiudere rapidamente il libro perché si è arrivati alla fermata senza accorgersene. E poi i tragitti – in genere – sono meno lunghi. Le dimensioni insomma non contano solo per Rocco Siffredi.

Qui di seguito butto giù una prima listarella di piccoli consigli per la bisogna. E visto che parlavo di ingegnosità nell’elaborazione di metodi per sbarazzarsi dei molestatori, il modo migliore per iniziare è sicuramente con…

Delitti esemplari. Di Max Aub. Aub è famoso soprattutto per il suo romanzo Jusep Torres Campalans, geniale “biografia fittizia” di un pittore mai esistito. Ma questo librino minimo non è meno geniale. I delitti immaginati e immaginari che popolano le sue scarse pagine sono narrati con una tale gioia liberatoria, con un’innocenza festosa e crudele da lasciare ammirati. In poche righe ogni volta Aub descrive un carattere, una persona, una storia umana con fulminea precisione. E la gioia… la gioia di dare a tutti ciò che si meritano! ;-)

Il Procuratore della Giudea. Di Anatole France. La storia è quella ma non è proprio quella. Un Pilato anziano discute con un suo amico, Lamia, esternando nel dialogo un forte risentimento antigiudaico. E Cristo? Vaghi ricordi. Al di là delle riflessioni di France sulla storia e il significato di questa e della riflessione storiografica, nonché sull’antisemitismo (antico come moderno), l’interesse per questa novella è soprattutto letterario. Scritta con eleganza e sobrietà che lasciano ammirati, consegna al lettore un ritratto umano tra i più affascinanti e riusciti.

Il mare e la sua sponda. Di Elizabeth Bishop. In questo minuscolo libriccino ci sono due ancor più piccoli racconti di questa grande poetessa americana. E la visionarietà, il rigore stilistico, la scelta precisa e rigorosa delle immagini narrative e figurative sono senza dubbio quelle del linguaggio poetico. L’un racconto e l’altro, quello sulla spiaggia del mare e quello dell’uomo che freme per essere rinchiuso in prigione, parlano di libri, di storie. E di fantasia. Del grande potere che ha la nostra immaginazione creativa e creatrice.

Una giuria di sole donne. Di Susan Glaspell. Giallo puro, classico e canonico, anche. Gli elementi del giallo ci sono tutti – il delitto, l'investigazione, la psicologia del movente, lo scioglimento del caso. In più vi è molto altro: l'eterna dicotomia/antitesi legge/giustizia vi trova una rappresentazione esemplare e compiutamente esplicativa. E questa storia di donne che commettono e coprono delitti – nella beata ignoranza e insipienza degli uomini – spinge a interrogarsi sul senso della locuzione “giuria di propri pari”. Forse ha ragione proprio Susan Glaspell…

Capitalismo totale. Di Jean Peyrelevade. Non di sola letteratura dovrebbe vivere il lettore sano. Questo breve libretto non è freschissimo visto che il suo autore l’ha scritto ormai nel 2005, ma sulla crisi economica in atto dice molto e meglio di tante analisi che ancora adesso si leggono. Jean Peyrelevade è stato presidente e amministratore delegato del Credit Lyonnais, dunque è stato uno dei grandi banchieri d'Europa. Non è insomma un kommunista arrabbiato, neppure in forma vaghissima (a meno che non siate dei sopravvissuti monetaristi di Chicago col cervello calcificato da troppi anni di finanza allegra e stronzate in salsa friedmaniana ;-)). E' per ciò, che questa mirabile sintesi della struttura economica planetaria che il capitalismo finanziario ha plasmato negli ultimi decenni è particolarmente illuminante e disperante.


Max Aub (1903-1972)

Anatole France (1844-1924)
Elizabeth Bishop (1911-1979)

Susan Glaspell (1876-1948)

Jean Peyrelevade (n.1939)

mercoledì 23 giugno 2010

La particella mancante – di João Magueijo


Quella di Majorana è una figura davvero affascinante nella storia della nostra cultura. Fu senza dubbio una delle menti scientifiche più brillanti dello scorso secolo, il solo paragone possibile credo sia quello con Albert Einstein; ma un carattere a dir poco peculiare e la precoce scomparsa lo relegherebbero nel patrimonio di conoscenze specifiche dei fisici se non fosse per le modalità di quella precoce scomparsa che ne hanno fatto quasi una star mediatica.

Leonardo Sciascia, suo conterraneo, dedicò al “Caso Majorana” un libro splendido, ampiamente e giustamente citato da Magueijo. Però il grande fisico fu molto più della sua enigmatica uscita di scena: che si sia suicidato buttandosi in mare o ritirato dal mondo rinchiudendosi in convento, oppure sia stato rapito da fantomatici emissari di una fantomatica potenza straniera, ciò che di lui è importante è un lavoro scientifico che, rimasto esiguo per le bizzarrie del suo carattere e la brevità della sua stagione, tuttavia continua a essere fonte di possibili sviluppi teorici e conoscenze pratiche a oltre sette decenni da quando di lui si sono perdute le tracce. E ciò che di lui è davvero affascinante ancora una volta non è la sua scomparsa: Ettore Majorana fu uomo e scienziato tormentato e complesso.

L'autore, il fisico e cosmologo João Magueijo


Follia è un termine che si usa spesso a sproposito, quando non si è in grado di interpretare la complessità che esula dagli schemi in ottemperanza ai quali i nostri pensieri e comportamenti vengono programmati (dai parenti, dalla scuola, dalle istituzioni; oggi, ahinoi, da una pletora di media aggressivi e superficiali). Majorana è a volte descritto come folle: perché è così difficile cogliere i motivi del suo disagio, della sua incapacità a rapportarsi a quegli schemi di comportamento e pensiero codificati – e follia è un termine così facile e comodo, perfetto per schemi di pensiero incapaci del minimo sforzo per capire la complessità. L’ipotesi di un uomo completamente assorbito dai suoi studi e per questo lontano dal senso comune e perfino squilibrato è destituita di qualunque validità.

Resta difficile comprendere in profondità le cause e le ramificazioni di un comportamento che fu asociale: nel senso stretto di un’inabilità vera e propria a conformarsi alle convenzioni del suo ambiente e in genere della società, e del disagio conseguente che lo portò a isolarsi, socialmente ma anche intellettualmente. Né però la complessità di Majorana si esaurisce nelle sue ombre: come Magueijo caparbiamente e abilmente mette in luce egli era dotato di un umorismo ingegnoso e sottile (forse troppo sottile per chi lo circondava), e nella giusta compagnia e con i pochi scelti amici era tutt’altro che chiuso. L’uomo schivo, restio a pubblicare il suo lavoro aveva però un senso fortissimo della teatralità, amava stupire – anzi folgorare - gli altri con il suo intelletto. Il rapporto irrisolto con il sesso femminile (con il sesso in genere: non gli si conosce relazione qualsivoglia) non completa il ritratto, lo rende anzi ancora più nebuloso per l’impossibilità di determinare il suo peso finale nella personalità e nella vita di quest’uomo geniale. Majorana attraversò la temperie politica, ma soprattutto sociale, del fascismo, sbattendosene. Quel che si ricava è che fu acutamente consapevole degli aspetti ridicoli e grotteschi di un regime cialtrone e che cancellò i pochi buoni risultati ottenuti con il Risorgimento, ma non era minimamente interessato alla politica attiva. Può apparire strano nell’esponente di una famiglia, che seppure affermatasi di recente, nelle generazioni immediatamente precedenti a quella di Ettore aveva dato uomini politici di rilievo all’Italia: ma in questo il grande fisico mi pare coltivasse lo sdegno di certo patriziato siciliano, che se non è profondamente ammanicato, se ne sbatte appunto altamente. E ricercando ciò che contribuì a plasmare quest’uomo così sfaccettato e difficile, così sfuggente alle definizioni e alle indagini (non, banalmente, quelle sulla sua scomparsa) inevitabilmente si approda a una famiglia che nel suo complesso emerge come non meno caleidoscopica, difficoltosa da inquadrare, contraddittoria e irriducibile a semplicità del suo esponente più illustre. Un materiale – umano, intellettuale, culturale – che come si vede solo un narratore dal talento grande e particolarmente portato per il dettaglio fine e le architetture letterarie complesse avrebbe potuto immaginare. E che invece fu un uomo vivo e arduo da accostare e interpretare. Riportato amorevolmente in vita in questo libro, seppure nei limiti di un tale accidentato attingimento.

Credo che per scrivere una buona biografia di un uomo di scienza ne serva un altro, per poter comprendere a fondo quell’aspetto così determinante che è la creatività scientifica nei suoi risvolti tecnici e psicologici; e a sua volta Magueijo è brillante uomo di scienza, capace di costruzioni intellettuali coraggiose e non conformistiche (il fisico portoghese è stato tra coloro che hanno sviluppato l’ipotesi della variabilità della velocità della luce, tra l’altro negli istanti iniziali dell’universo quando, secondo tale teoria, essa sarebbe stata superiore per decine di ordini di grandezza). Si dimostra anche un divulgatore affascinante e limpido, aspetto importante per il lettore non tecnico, visto che le parti in cui ci si addentra nell’illustrazione di argomenti di fisica non esattamente elementare (specie i risvolti più recenti) sono numerosi.   

Da buon fisico teorico, Magueijo non si sottrae alle seduzioni delle ipotesi e delle speculazioni, ma nel ricostruire la vicenda umana di Majorana si attiene anche con scrupolo alla realtà dei fatti per noi ricostruibile. E del resto la sua vicenda emerge da quei fatti, che pure sono pochi, con urgenza e chiarezza. E’ proprio esplorando, indagando, quasi vivisezionando fatto dopo fatto che Magueijo porta la figura di Majorana ad affiorare sulle pagine del suo libro. Ne analizza spassionatamente il rapporto con una famiglia dove convivevano rigidezze e chiusure e spericolatezza intellettuale, senza forzare interpretazioni psicologiche che non siano ricavabili per il lettore da quanto egli offre alla sua lettura; mostrando la straordinaria funzione di stimolo che essa ebbe, e il dibattersi di una personalità abnorme come quella di Ettore Majorana entro le sue maglie. Di straordinaria vividezza è la ricostruzione del rapporto di Majorana con i “Ragazzi di Via Panisperna”, il gruppo di talenti della fisica che tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30 vennero radunandosi presso l’Istituto di Fisica dell’Università di Roma sotto l’ala protettiva del suo direttore, Orso Mario Corbino: i vari Enrico Fermi, Franco Rasetti, Edoardo Amaldi, Emilio Segré, Bruno Pontecorvo e altri. Un rapporto, che ben al di là delle agiografie ed eroiche mitologie che hanno plasmato il santino del gruppo di italici eroi, fu, per Majorana, ancor prima che di rivalità, di sostanziale estraneità. Antitetiche le personalità di Majorana appunto e di Fermi, che dei “Ragazzi” era il perno oltre che il capo, perché vi potesse essere una minima sintonia. Antitetiche per preparazione culturale e per spirito (perfino per intelligenza e creatività scientifiche – ma chiunque rischiava la magra figura a confronto di Majorana). E se Fermi sviluppò questa contrapposizione in termini di competitività e risentimento, la reazione di Majorana fu – prevedibilmente – più complessa. Egli tese a marcare nei fatti la sua estraneità, rifiutando una vera incardinazione nel sistema universitario e dell’Istituto romano (essa avverrà solo pochi mesi prima della sua scomparsa e all’università di Napoli), e appare aver sempre calato dall’alto i frutti del suo intelletto nella non lineare collaborazione con i “Ragazzi”; senza contare che lo sfoggio del proprio talento in faccia agli altri fisici non di rado era fatto con gusto malizioso.
I Ragazzi di Via Panisperna. Da sinistra: il chimico Oscar D'Agostino, Emilio Segré, Edoardo Aamaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi 

Majorana pare aver sempre mostrato un atteggiamento paradossale verso quei frutti del proprio ingegno di cui dicevo, e di cui non sembrava curarsi minimamente: vi sono molti riscontri - e non vi è motivo per altro per non credere alle affermazioni di uomini che non avevano ragione per essere teneri o benevolenti con lui – sul fatto che egli abbia anticipato molti risultati della fisica nucleare degli anni ’30, ma che buttasse, alla lettera, i suoi studi nella carta straccia. A tutto questo si aggiunge il “buco nero” degli anni dal 1933 al 1937, durante i quali visse e lavorò rinchiuso in casa: la produzione scientifica di quel periodo andò perduta completamente dopo la sua scomparsa, apparentemente più che altro per incuria.  

Sotto il profilo letterario Magueijo risulta assai convincente nell’applicazione di uno stile colloquiale e diretto di incisiva immediatezza, e mettendo in mostra un vero talento affabulatorio che come anticipato non gli difetta neppure nelle sezioni dove si dilunga nei dettagli del lavoro scientifico di Majorana e altri.
Orso Mario Corbino, la mente organizzativa dietro molti dei successi della fisica italiana degli anni '20 e '30

Ovviamente Magueijo non si sottrae in nulla al richiamo della cause célèbre Majorana, il suo volatilizzarsi nel nulla alla fine del marzo del 1938. Come potrebbe? Non solo essa appare parte integrante della personalità del fisico italiano, ma inevitabilmente è uno dei grandi motivi che suscitano interesse per la sua figura, non per ultimo nello stesso autore della biografia. Lo scienziato portoghese, però, pur non sottraendosi neppure alla speculazione nel merito di cosa sia effettivamente accaduto (ciò che fa con eleganza e sobrietà) ha la capacità di inserire la vicenda terminale di Majorana nel mosaico della sua vita come tassello integrato.      

Per questo è un peccato che un titolo, a un tempo sublime e rigoroso quale A Brilliant Darkness: The Extraordinary Life and Disappearance of Ettore Majorana, the Troubled Genius of the Nuclear Age debba trasformarsi nel sensazionalistico, più banale e impreciso La Particella Mancante – Vita e mistero di Ettore Majorana, genio della fisica. Editori e traduttori italiani sembrano tendere con particolare gusto alle soluzioni triviali.

giovedì 17 giugno 2010

Quattro racconti di Saki (Hector Hugh Munro): Tobermory / The Unrest-cure / Sredni Vashtar / The Story-teller


Considerato in genere un autore “minore”, forse anche per la quasi esclusiva propensione a scrivere racconti brevi o brevissimi, Saki ci ha però consegnato un ritratto della società britannica del suo tempo di rare incisività e cattiveria.

Con la sua penna avvelenata, questo fecondo maestro della short story ha tratteggiato in rilievo una galleria completa di tipi umani: le persone dabbene della società edoardiana, quella varia umanità post-vittoriana erede diretta dei riti, le fobie, le inibizioni che hanno caratterizzato un’epoca assurta a simbolo dell’ipocrisia borghese con le sue piccinerie e censure spirituali. Saki unisce nei suoi racconti una grande abilità nella costruzione di trame efficaci, il gusto quasi sadico per una satira di costume tanto efferata quanto senza appello, e quello beffardo e thrilling per il dettaglio macabro. Lo sorreggono la finezza con la quale pennella in poche battute i personaggi e la destrezza con cui fa uso delle risorse linguistiche a sua disposizione. Nello spazio di brevi racconti forse non è possibile fornire approfondite analisi psicologiche, eppure le sintetiche descrizioni di Saki sono così taglienti da arrivare ugualmente in profondità e consegnare al lettore, completamente indifesi e nudi, i bersagli dei suoi strali. La lingua inglese, con quei vertici di formalismo rari tra le lingue europee e la ricchezza e plasticità del suo vocabolario, gli permetteva accuratezza estetizzante per il dettaglio e precisione iperrealista nella caricatura, entrambe decisive per l’abrasiva istantanea di vita edoardiana che egli compose. E, va detto, per la non meno abrasiva satira di comportamenti, abitudini, schemi di pensiero che non sono limitati entro epoche storiche o luoghi geografici, ma assumono piuttosto caratteri di universalità. Irregolare della letteratura e della società, personaggio complesso e problematico, tormentato spirito avventuroso sul quale forse incise la nascita nelle colonie, in Birmania, e la frustrazione per il fallito ritorno in quei luoghi durante la prima età adulta, Hector Hugh Munro sviluppò sotto il nom de plume di Saki quella distaccata osservazione dei suoi simili che tradusse nella ferocia con cui li mise alla berlina e che lascia quasi del tutto fuori uno slancio umanistico di redenzione.

Saki scrisse la quasi totalità dei suoi racconti nell’arco di poco più di un decennio, dal 1902 allo scoppio della I Guerra Mondiale per la quale partì volontario benché non fosse più di primo pelo. Morirà nel 1916 sul fronte francese.

Tobermory, The Unrest-cure, Sredni Vashtar e The Story-teller sono tra i racconti più noti dell’autore e sono stati recentemente ristampati nell’ambito dell’iniziativa editoriale delle Short Stories dell’Espresso, che da tempo offre in allegato al settimanale dei libretti che presentano, nel testo originale e in traduzione italiana a fronte, racconti o brevi novelle dal ricchissimo patrimonio della narrativa breve delle letterature anglosassoni.

Tobermory mette in scena le dinamiche che si instaurano all’interno di un gruppo nutrito di quegli esponenti della buona società inglese del tempo. Saki li riunisce in una grande villa di campagna, ospiti degli abbienti padroni di casa. Sono certamente annoiati, pettegoli, ottusi, aridi, concentrati sulle futilità della loro vita e sugli obblighi di mascheratura imposti da un’ipocrisia che è profondo habitus mentale ancor più e prima che stile di vita. I cortesi e oliati rituali del gruppo vanno in frantumi quando l’autore attua l’éscamotage di una diversione nel surreale introducendo il bizzarro personaggio di Cornelius Appin, a metà tra il ciarlatano e lo scienziato genialoide. Questi annuncia di aver finalmente coronato lo scopo di tutta la sua vita, riuscendo a insegnare a parlare al gatto di casa, Tobermory. Una bellissima cosa, se non fosse che Tobermory, prontamente convocato dinnanzi al consesso degli sfaccendati riuniti, mette in mostra la riprovevole abitudine di raccontare la verità iniziando a spiattellare gli altarini degli umani presenti: chi ha detto cosa di chi altro; chi vede chi; abitudini più o meno vergognose; scopi meschini più o meno reconditi. Per fortuna di molti, il gatto si interrompe dopo le prime rivelazioni per gettarsi alla rincorsa del grosso gatto dei vicini. L’esibizione è stata più che sufficiente, però, per gettare il gruppo nel pieno scompiglio e far venire i sudori freddi a tutti. Ha così inizio, mentre ci si guarda in cagnesco e affiora il malanimo, la discussione su come correre ai ripari – ovvero come far fuori il linguacciuto felino (e un pensierino viene dedicato anche al suo insegnante…). Da pungente, Saki si fa beffardo e crudele. Macabro. Forse perfino malvagio. Le mille paure, i trasalimenti di questi begli esemplari umani, il loro affannoso chiedere alla servitù se il gatto è rientrato e ha mangiato dalla sua scodella rifornita del cibo che si è alla fine deciso di avvelenare come soluzione più semplice: Saki è a dir poco diabolico nel conferire tutta la coloritura nera del caso a dialoghi e azioni, e spessore tridimensionale all’atmosfera di risentimento e sospetto creata. Tobermory libererà la compagnia dalle ambasce facendosi ritrovare il giorno dopo cadavere in giardino, scannato dal gattone dei vicini. Ma è proprio il sollievo e il ricomporsi dei rituali a rappresentare un’ulteriore frustata di Saki, che poi affida la chiusura, su una nota di umorismo nerissimo, a Clovis, personaggio ricorrente dei suoi racconti e al quale spesso delegava il compito di assestare qualche legnata ai benpensanti. Questi, commentando la notizia che Cornelius Appin era morto calpestato dagli elefanti allo zoo di Dresda in Germania, si esprimerà affermando che “If he was trying German irregular verbs on the poor beasts, he deserved all he got.”.

Clovis torna in The Unrest-cure, dove è anzi il mattatore. Riflessa in quella di una ricca coppia di fratello e sorella, Saki mette alla gogna la più vieta abitualità nei comportamenti umani, che qui sfocia nel ridicolo del disagio spirituale provato da una coppia di fratello e sorella perché un tordo – forse un tordo diverso da quello che loro conoscono da anni – ha fatto il nido in un punto del giardino diverso dal solito. La miseria e la monotonia di esistenze che hanno giorni e orarii programmati per avere mal di testa. Clovis ascolta in treno i discorsi del fratello, J.P.Huddle, il tedio infinito per una vita senza accadimenti eppure terrorizzata da ogni possibile imprevisto. Decide perciò di offrire ai due una speciale Unrest-cure: una cura dell’Antiriposo. Il modo in cui gliela procurerà non è importante (lascia però ammirati il funambolismo verbale e scenico messo in atto da Saki per farlo). Ciò che è importante è la tempesta psicologica e domestica, descritta in modo magistrale, che la burla architettata da Clovis con smagata cattiveria scatenerà nei malcapitati fratello e sorella. I due ne escono a pezzi, come a pezzi escono dalla descrizione del rapporto di sudditanza psicologica della upper class nei riguardi della Chiesa. Ancora una volta il black humour di Saki trionfa, e il lettore prova un perverso piacere nell’assistere all’angoscia degli Huddle che pensano di ospitare in casa loro l’arcivescovo, il quale avrebbe deciso di sterminare gli ebrei del circondario, servendosi alla bisogna anche di un manipolo di feroci boy-scout. Shock and awe, si direbbe oggi. Ma forse è solo che gli Huddle sono così terribilmente formali e dabbene. Insomma ottusi.

Sredni Vashtar, tra i quattro racconti, è forse quello dove il macabro e la crudeltà raggiungono il culmine. L’aspetto satirico si stempera e lascia maggiore spazio agli aspetti psicologici della vicenda e ai dettagli grotteschi. Sredni Vashtar è un grosso furetto. L’animale è segretamente custodito in una rimessa da Conradin, il bambino protagonista del racconto. Di Conradin sappiamo che è ammalato, e probabilmente non vivrà a lungo, e che odia la cugina, la signora De Ropp, la quale MAI dovrà venire a conoscenza dell’esistenza di Sredni Vashtar. Cugina e tutrice, la signora De Ropp è incarnazione di tutto ciò che è rispettabile, normale, rigido e privo di fantasia. La fantasia è invece la sola arma con la quale Conradin sfugge occasionalmente alla sua guardiana. Conradin ha fatto del suo furetto una divinità, a lui eleva preghiere e impetra grazie: quella di levargli di mezzo la cugina, per esempio e per prima. Nulla di troppo strano, a tutti noi è capitato di augurarci la più o meno serena dipartita di qualcuno particolarmente molesto. Magari non attraverso i buoni uffici di un nume privato con le sembianze di un mustelide. Però un bambino solitario, malato e dall’immaginazione fertile e infiammata può certamente arrivarci. Al mustelide. Saki elabora studiatamente la psicologia e i comportamenti del bambino, e le opposte reazioni della donna. Dal loro reciproco non sopportarsi, malcelato soprattutto nel caso della adulta, traspare in filigrana e poi con sempre maggiore evidenza la potenza patogena delle convenzioni sgradite che costellano i legami familiari; il sadismo che sovente ne consegue nelle relazioni interpersonali tra chi detiene e chi subisce il potere; e il risentimento che si stratifica nel tempo per poi esplodere apparentemente a sorpresa. Ed è proprio ciò a cui assistiamo: i piccoli e grandi sadismi, il risentimento che monta. E le preghiere a Sredni Vashtar. E’ con gioia evidente che al termine di una vera e propria caccia al tesoro, la signora De Ropp, insospettita dalla frequenza e durata delle visite di Conradin alla rimessa, gli sottrae la chiave della misteriosa gabbia che il bambino custodisce. Saki si supera nella fulminea descrizione dello psicodramma che segue: il bambino assiste dalla finestra della cucina all’ingresso trionfale della donna nella rimessa, in un tumulto di emozioni si rivolge al furetto per un’ultima, disperata preghiera. Un miracolo. La donna gli ha già tolto la gallina con cui pure giocava, ora sarà la volta del suo dio? Sempre più turbato, Conradin non vede la donna uscire con il tempo che passa. Finché a uscire furtivo è Sredni Vashtar. Saltellante, l’animale si allontana, il pelo del muso e le zanne che colano un liquido scuro: Conradin si imburra abbondantemente del pane tostato, azione che la signora De Ropp non approverebbe. Quando la servitù cercherà la signora, e proromperanno infine le urla, il personale di casa prenderà a interrogarsi su chi avrebbe avuto il coraggio di dare la notizia ferale al bambino. And while they debate the matter among themselves Conradin made himself another piece of toast. Be’, chapeau! E rest in peace, Mrs De Ropp.

The Story-teller presenta una vicenda molto simile, ma con la fondamentale differenza che essa accade nel racconto che un uomo fa per intrattenere tre ragazzini. Il contastorie del titolo è un povero diavolo, un giovane che si ritrova nello scompartimento del treno una zia con tre ragazzini, due femmine e un maschio. Tre pestiferi elementi, mai zitti, in continuo movimento, indisciplinati, rumorosi, petulanti. Tre corifei dell’eterna inesausta domanda: perché? Il viaggio sarà ancora lungo. La situazione porge il destro a Saki per esporre in modo tanto succinto quanto completo la sua poetica e forse il senso stesso della letteratura. Quando infatti la zia, nel miseramente fallito tentativo di tener buoni i tre piccoli selvaggi racconta loro la storia di una bambina buonissima, diligentissima, perfettissima – e premiata dagli eventi per questo – il giovane interverrà criticandone il talento di contastorie. Sfidato dalla zia a far meglio, narrerà a sua volta la storia di una bambina buonissima, diligentissima, perfettissima – e premiata per questo con ben tre medaglie. Ma questa bambina è horribly good. E al sentire l’avverbio l’attenzione del giovanissimo uditorio si desta e le orecchie si drizzano. Bertha, la bambina horribly good, riceverà il giusto guiderdone della sua horrible goodness:per l’intempestivo tintinnare delle medaglie che porta appuntate sulla vestina, verrà divorata da un lupo nel giardino del Principe (ciò che, per il giubilo dei tre ragazzini, permette tra l’altro ai maiali del Principe di salvarsi dal lupo). La zia è debitamente scandalizzata per una storia dove la bontà non è premiata (e che i ragazzini hanno molto gradito: the story began badly, but it had a beautiful ending dice la più piccola delle femminucce). Ma il giovane le risponderà I kept them quiet for ten minutes, which was more than you were able to do. Forse la storia non sarà stata molto educativa, è vero, ma l’apologo fulminante di Saki centra il punto fondamentale: per insegnare si deve partire dal coinvolgimento di chi apprende. Così come il solo peccato mortale della letteratura è di risultare noiosa.

sabato 12 giugno 2010

Il pranzo della festa. Una storia dell'alimentazione in undici banchetti - di Martin Jones




Il pranzo della festa è un titolo persino frivolo; e il sottotitolo – Una storia dell’alimentazione in undici banchetti – pare quasi sottolineare questa leggerezza. Come spesso succede, il titolo originale è più sobrio e centrato: Feast. Why humans share food. L’argomento è arduo e complesso. Non meno però, di quanto sia affascinante e appagante una volta che ci si immerge nelle pagine del libro.

Martin Jones è un archeologo inglese, si occupa in particolare dei reperti legati al consumo e alla produzione del cibo e agli effetti dell’alimentazione sull’uomo e la sua organizzazione sociale.

Per gran parte di noi occidentali la produzione del cibo è un’attività che appare ormai remota, e la sua consumazione è un rito quotidiano che diamo per scontato. Tendiamo quindi a sottovalutare il fatto molto concreto che l’alimentazione è la base da cui non può prescindere la nostra esistenza, individuale e di specie. Neppure siamo (più) coscienti del fatto che il procacciamento del cibo è stato l’assillo più gravoso lungo quasi tutto lo snodarsi della storia del nostro genere e di quelli dai quali ci siamo evoluti.

Il libro di Jones fa qualcosa di più che semplicemente ricordarci questi aspetti che nel nostro occidentale, noncurante ingrassarci e ingozzarci tralasciamo spesso e volentieri.

Jones esegue una profonda e accurata analisi di tutti i dati in nostro possesso: archeologici, climatologici, biologici. Principiando dalla ricostruzione minuziosa delle dinamiche pre-umane di accesso e consumazione del cibo presso una comunità di scimpanzé, e proseguendo poi con l’uomo a partire dalla ricostruzione archeologica di un sito di 500.000 anni fa dove un gruppo di Homo heidelbergensis macellò e in parte consumò un cavallo selvatico, approderà alla nostra civiltà del fast-food. Undici tappe, archeologiche e non, di un percorso attraverso il quale l’autore ci conduce, dipanando una storia che ha punti di cesure e fili che al contrario paiono e sono ininterrotti. E’ una considerazione banale, ma ancora una volta è qualcosa che tendiamo a dimenticare con eccessiva facilità: il cibo – la sua disponibilità, il procacciamento, la sua consumazione – ha cambiato l’uomo durante il corso di tutta la sua esistenza come specie. Cambiato sul piano biologico, sociale, psicologico. A sua volta l’uomo a fini alimentari ha continuamente, incessantemente mutato l’ambiente naturale dove reperisce le sue fonti di cibo e i metodi impiegati per procurarselo. Ancora oggi la tecnologia più determinante – e la cesura determinante – introdotta dall’uomo è quella agricola, che ha completamente rivoluzionato i comportamenti della nostra specie: sotto il profilo economico, sociale, psicologico, religioso, fisiologico. E’ con l’agricoltura che nascono l’accumulazione di capitale e la gerarchia sociale, quindi l’interconnessa società globale nella quale viviamo. E dunque anche la guerra come paradigma del rapporto tra nazioni per il controllo delle fonti di approvvigionamento. Nessuna tecnologia, infine, ha mutato maggiormente e più in profondità il volto fisico del pianeta. Che sia stata un’innovazione felice è pertanto tutt’altro discorso.

Se l’uomo ha plasmato il suo cibo attraverso l’agricoltura, a sua volta QUEL cibo ha plasmato l’uomo. La sua disponibilità, conservabilità, riproducibilità hanno determinato il successo riproduttivo della nostra specie. Su QUEL cibo, che essenzialmente è il cereale, l’uomo ha ri-edificato la sua società e le sue credenze. A loro volta, questi memi potentissimi hanno condizionato l’uomo, fino a mimare nella nostra psiche una supposta naturalità dell’agricoltura e delle costruzioni psicosociali che ha indotto. Fino a condizionare la scelta naturale: ad esempio è sicuramente materia di riflessione il perché la nostra civiltà occidentale abbia finito per adottare come alimento base il frumento (anzi, alcune sue varietà) e non un cereale sotto quasi ogni aspetto superiore quale è l’orzo. In Asia si può proporre la stessa riflessione scambiando il frumento con il riso. L’agricoltura e le sue sovrastrutture ideali e sociali non hanno solo inciso in modo negativo sulla fisiologia umana, ma hanno introdotto un certo conservatorismo culturale nella specie, rallentandone le capacità di risposta a eventi esterni.

Sebbene il rigore tecnico con il quale Jones procede renda a volte di non immediata comprensione e fruizione la materia trattata, tuttavia quello stesso rigore, e il puntiglio dello scienziato, sviscerano l’argomento in modo così completo e profondo da permettere al lettore disposto a impegnarsi di giungere a una piena cognizione di un soggetto così complesso e dalle infinite ramificazioni nelle più varie discipline. Da un punto di vista squisitamente letterario l’ironia appena accennata di cui Jones sa far uso agevola questo percorso.

Questo rigore e questo puntiglio sono non meno importanti per illustrare il metodo di lavoro applicato, e più in generale il procedere di un’indagine scientifica, il formarsi delle ipotesi, la ricerca delle conferme, il lavoro di analisi ed esegesi delle fonti.

Il pranzo della festa non è soltanto una disamina chiara, completa e ricchissima di riflessioni collaterali sull’aspetto più centrale della storia umana allo stato delle conoscenze attuali; non è meno una narrazione potente di questa storia. Dal complesso dei dati Jones trae una materia che è viva. I siti archeologici presso i quali trasporta il lettore prendono letteralmente vita, mostrandoci l’umanità che li abitava e che lottava senza posa per sopravvivere, poi per espandersi e moltiplicarsi.

Non è frequente imbattersi in libri che riescono a fare tutto ciò. A permetterci di conoscere noi stessi, di capire come e perché siamo giunti dove siamo ora. E che lo facciano affascinando. Libri che danno senso all’attività della lettura.  

sabato 5 giugno 2010

Patrie impure I - Maiali, di Antonio Moresco


Patrie impure è un titolo di aspra bellezza. C’è la nobiltà delle “patrie” per cominciare. Che è pur assai diversa dalla “patria” indistinta, che ci rammenta il difficile cammino verso un’identità condivisa e condivisibile e l’inevitabile differenza che permane tra le idee, le raffigurazioni mentali di ciascuno di noi. E ci sono la sincerità e la ruvidezza di quell’”impure”; perché non è mai un bene chiudere gli occhi: che queste nostre patrie italiane siano bastarde o imbastardite è appunto sotto gli occhi di ognuno. A patto di volerli aprire e tenere aperti. La verità è ruvida, scomoda; la sincerità è impura nel suo non curarsi di assumere una forma depurata da asperità e studiata per non provocare turbamenti in anime assopite. Ma riconoscere che viviamo nel ventre di patrie impure è invece il passo necessario per amarle e desiderarne un mutamento culturale e civile, la costruzione di un edificio infine condivisibile e libero.

Una voluminosa antologia di racconti “impegnati” è un grosso rischio. Intanto perché impegnati e quindi militanti. E quindi in opposizione a quel disimpegno altrettanto militante – e tanto più facile da accogliere – che è lo strumento etico ed estetico attraverso il quale è attuato il governare appecoronando. Perché insomma c’è un rifiuto a chiudere gli occhi e il coraggio di scegliere. Nel 2003, quando l’antologia appare, la società, la politica, l’economia italiane non sembrano ancora aver raggiunto quel grado di decomposizione al quale siamo arrivati ora; ma basta far mente locale e dobbiamo arrenderci alla realtà che si trattava di pura illusione.

Altro rischio è quello che si corre nel mare delle librerie e del pletorico flusso di libri, per lo più inutili, che circonda il lettore: l’invisibilità. Confesso che sette anni or sono non mi avvidi proprio di questo libro. Poi qualche settimana fa me lo ha restituito la generosità di una bancarella romana. Mi colpiscono quel titolo, l’eleganza così essenziale della copertina di Lorenzo Mattotti (presente anche all’interno, dove due dei racconti sono a fumetti, per i suoi disegni appunto). Mi colpisce la promessa del coro di voci, oltre quaranta racconti dei più vari scrittori. L’assunzione di un programma tanto difficile: tentare un ritratto delle Italie contemporanee.

Come amo spesso fare con volumi di questo tipo attacco alla rinfusa, con l’intenzione di leggerne quando e come capita.

Maiali è il secondo racconto del libro. Diviso in due nettamente. Nelle prime pagine Antonio Moresco si abbandona alla durezza senza sconti dell’invettiva. Con un’amarezza e perfino una rabbia, non mai disgiunte dalla lucidità, ci racconta un’Italia che vediamo ancora adesso, in ogni momento delle nostre giornate. Le piccole e grandi rapacità degli affari e dei vari reggitori della macchina statale. I servilismi che corrodono il senso civile (se mai lo abbiamo avuto). L’ignoranza, specie quella orgogliosa di sé, che informa la vita spirituale. Lo sgretolarsi, il venir meno delle promesse – non soltanto in Italia, certo – di quel cammino della democrazia iniziato più di due secoli fa e che ora appare destinato a spegnersi nella cristallizzazione dei propri riti (elettorali) svuotati di ogni vera sostanza.

Il lamento per i tempi andati appartiene a ogni epoca; però Moresco non si limita e non ci limita alla lamentazione nostalgica, che è tratto quasi genetico dell’uomo e posa letteraria. Quando cita Walt Whitman che descrive gli Stati Uniti del suo tempo ci basterebbe sostituire a essi l’Italia di oggi per avere un ritratto fedele della nostra realtà. Eppure Moresco va oltre la posa moralistica, trasversale alle epoche storiche, e ci incita a cogliere il nucleo fruttuoso di questa pratica che spesso è sterile: la funzione della memoria. E’ proprio la memoria, la merce più rara se ci guardiamo d’attorno, a porre il discrimine tra sterile e fecondo. La memoria, come è nel Whitman citato da Moresco, è il solo strumento del nostro pensiero critico che sia necessario e sovraordinato a ogni altro: perché è attraverso di essa che possiamo operare confronti, distinzioni, scelte libere e consapevoli. Se l’invettiva del moralista si risolve nel pensiero che tutto va male comunque, che la natura umana è immutabile, sarà stata sterile. Se invece  ci permette e anzi se ci stimola – o ancor meglio se ci forza con violenza – a riflettere sui tempi che viviamo, sulle differenze e sulle analogie con altri, sulle prospettive future e su quelle storiche – se insomma ci costringe a esercitare la funzione critica della memoria – allora avrà avuto un senso. Allora potremo accorgerci come la riduzione a un eterno presente della nostra storia e della nostra vita sia stato e sia ancora lo strumento cardinale del potere politico, mediatico e culturale degli ultimi trent’anni. Se ieri non è più distinguibile da oggi non perché indistinguibile ma perché rimosso, allora è orwellianamente possibile l’infinita ripetizione delle promesse e dei tradimenti; la fungibilità degli opposti; la demonizzazione della funzione critica; lo svilimento e la banalizzazione dello strumento principale del pensiero, cioè la parola, oppure il suo uso terroristico in costrutti verbali privi di senso reale. La colpevolizzazione della memoria storica quale fosse il rifiuto astioso di una ricomposizione civile rimuove il nostro ieri e impedisce di ricomporre il presente attraverso la comprensione del e la connessione con il passato; permettendo in tal modo di condurre il gregge nazionale al pascolo prescelto. E poi al macello.

Tutto questo Moresco, non a caso, lo suggerisce, lo mostra, a tratti lo urla, proprio attraverso il ricordo. Raccontandoci di sé stesso che ricorda. L’eleganza della sua scrittura non ha nulla di asettico, e anzi è diretta e petrosa; è scabra ed energica. La limpidezza non ha nulla della trasparenza di un fragile cristallo, ma se mai di un diamante incolore.  

La seconda parte del racconto si apre sui maiali del titolo. Veri e propri inizialmente, poi giungeranno anche quelli metaforici.

Moresco allarga la funzione della memoria. Passa dalla memoria personale a quella condivisa, individua un momento della nostra storia dove la smemorizzazione mediatica dell’informazione ha le sue radici più forti. Un evento seminale per la spettacolarizzazione televisiva della vita e della morte; per la creazione di un immaginario dove gli opposti sono fungibili, il presente è totalizzante, il dolore è ridotto a una funzione circense, e il pubblico (non solo) televisivo si muta in platea indistinta di fan dei volti televisivi. Qualche anno dopo, nel voluminoso romanzo Dies Irae, anche Giuseppe Genna, presente in questa antologia con un suo racconto, porrà la lunga diretta dal pozzo nel quale era caduto il piccolo Alfredo Rampi come spartiacque culturale dell’Italia contemporanea.

Vediamo così i maiali del genere Sus scrofa assieparsi sul bordo del pozzo, e poi sostituiti da maiali diversi, stazionati in posa eretta. Moresco lascia il 1981 e l’evento reale per immaginare cosa avverrebbe se esso si ripetesse oggi (cioè nel 2003). Per mostrare l’accorrere e l’accalcarsi dei teatranti televisivi - che siano facce politiche o dell’informazione o dello spettacolo, o ancora l’immancabile prete - attorno al fatto eclatante una volta di più occasione per mettersi in mostra, per sfruttare e soggiacere alla realtà e alle necessità dell’eterno presente televisivo nel quale è stata trasformata l’Italia. Per mostrarli nel loro intralciare i soccorsi. Per mostrarci la nostra realtà di parassiti emotivi.

Poi, con un ultimo balzo della fantasia, Moresco ci trasla nel puro immaginario, dove l’allegoria però si completa e si compie, passando dalla raffigurazione all’interpretazione e progettazione della realtà. Vediamo il bambino dentro il pozzo parlare con ciò che è in alto (l’immancabile pretone, l’immancabile politicone) e ciò che in basso (un Dio che gli si presenta ctonio). A tutti loro che lo esortano a uscire fuori dal pozzo il bambino chiede perché dovrebbe: “perché qui è più bello” è la risposta, che non ha ulteriori spiegazioni. Ma le affermazioni di notorii falsarii a quanto pare non convincono il bambino. La natura, sotto forma di una formica e un lombrico non gli nascondono e anzi gli rammentano che lì, sotto terra, è freddo. Eppure il bambino non intende salire. Rifiuterà di uscire dal grembo della terra, rifiuterà di nascere. E’ una conclusione in apparenza amara, disperata. Che però dovrebbe anche scuotere. Quel bambino là sotto la terra, nel grembo dell’Italia c’è, ed è vivo. E’ un futuro che rifiuta la realtà di un presente al di sotto di ogni civile aspettativa. E’ un futuro che, ci dice Moresco, va convinto a nascere con il rifiuto di questo presente che ha abdicato alla memoria.

    

mercoledì 26 maggio 2010

I Preti di Stargorod - Nikolaj Semënovič Leskov


Leskov non è certo il più reputato dei grandi narratori russi del XIX secolo. A questo concorrono probabilmente due aspetti: il suo essere soprattutto un novellista d’eccezione in una terra e un tempo di fluviali romanzieri e poeti ardenti, e un’apparente maggior leggerezza dei temi.

I Preti di Stargorod – Cronaca (il cui titolo originale suonerebbe un ancor più asciutto “Preti”, sempre con quel sottotitolo: “cronaca”) è forse il suo romanzo più noto, e mi pare in grado di rendere giustizia al suo autore. Per un verso esso evidenzia i limiti – se di limiti necessariamente si tratta – di Leskov: come romanzo si mostra  infatti eterogeneo, le sue parti non appaiono equilibrate e all’apparenza manca di coesione narrativa: quel sottotitolo Cronaca sembra descriverlo alla perfezione, più cronaca giornalistica che (re)invenzione letteraria, analisi della realtà. Ma tra le pieghe di questi limiti – o meglio dandosi cura di leggere con attenzione il romanzo – se ne scorge il superamento per altre vie.

Il romanzo appare disarmonico ed eterogeneo perché indubbiamente lo è, sin dalla sua genesi: le sue parti vennero infatti disparatamente pubblicate nel corso di un decennio circa. Ma proprio la sua natura cronachistica permette a Leskov di volgere in pregio questo difetto: I Preti di Stargorod finisce con l’essere una somma di racconti, e di racconti nei racconti, terreno sul quale l’autore si muove con grande sicurezza grazie all’abilità di sintesi che mostra nello schizzare i caratteri, nel tratteggiare in economia una psicologia completa, nel vigore emozionale che sa imprimere ai brevi scorci lirici che intessono la narrazione: verso la fine del romanzo è magistrale la descrizione della tempesta che coglie nella campagna padre Tuberozov, dello smarrimento dell’arciprete di fronte alla grandiosità della natura, e vi si avverte in modo sottilissimo ma pieno la prefigurazione della morte che coglierà l’anziano religioso di lì a non molto.

Ma una somma di racconti non fa ancora un romanzo. Un primo elemento unitario, labile, si può rintracciare nello spirito ambiguo che anima tutto il romanzo, sospeso tra un senso incombente di morte e l’erompere di una vitalità molto russa e molto prepotente; ambiguità che si risolve nella ciclicità naturale della vita. Per il clero di Stargorod era giunta un’epoca di completo rinnovamento: così Leskov conclude il romanzo. Una cronaca ha termine, se mai dovrebbe iniziarne una nuova. A una stagione ne succede un’altra.   
La spartana edizione BUR del libro (1962)

Un secondo elemento unitario, neppure esso decisivo, sono le figure stesse dei preti della città di Stargorod. Quanto meno dei due che nell’economia di questo romanzo dispersivo e anarchico assumono ruoli centrali, prossimi a quelli di veri e propri protagonisti (e comunque si tratta dei soli personaggi tali da configurarsi come protagonisti): l’arciprete Tuberozov e il diacono Achilla.

Sebbene la prima parte del romanzo - che da sola ne occupa quasi un terzo - e la seconda siano corali e presentino una galleria umana straordinaria per varietà e finezza di rappresentazione, anche se spesso il bozzetto prevale sul grande ritratto, già in esse il diacono e l’arciprete assumono un rilievo particolare, e l’autore si sofferma sull’esteriorità dei loro gesti e gesta, se non ancora sulla loro anima e pensieri profondi.

Nella prima parte, la lunga ricognizione del diario dell’arciprete vuole mostrarci uno spirito ardente e puro, ma resta ancora superficiale: Leskov ci dice troppo, e come spesso accade quando l’autore prende il posto del suo personaggio finisce per dirci troppo poco: per raccontarci in luogo di mostrarci. E’ sicuramente la sequenza più debole dell’opera. Sarà nella quarta parte del romanzo, quando egli lascerà a Tuberozov tutto il campo, che la grande anima dell’arciprete ci si rivelerà nelle sue azioni e pensieri, non più raccontati ma lasciati alla nostra osservazione di lettori. Sarà qui che la grande complessità della personalità dell’arciprete ci svelerà la sua celata semplicità; che la sua asprezza lascerà vedere in controluce l’onestà disposta a qualunque sacrificio; che l’ottusità del pope, grattatane la superficie farà affiorare tutto l’amore del vero – rarissimo – cristiano. In ultima analisi è qui che la semplicità di padre Tuberozov torna a mostrarci tutta la complessità della sua figura letteraria e di uno spirito sofferto incapace di scendere a compromessi, e che sempre ha anteposto il rispetto della genuina legge (divina) al rispetto per le gerarchie (terrene). Si può non essere d’accordo con l’arciprete ma non si può non ammirarlo.      

Anche Achilla, il gigantesco, esuberante, eccessivo diacono non emerge ancora del tutto nelle prime due parti del romanzo. Le sue (dis)avventure, le vere e proprie monellerie, il vicendevole farsi la forca con i nemici “intellettuali” anticlericali come il professore Varnava Prepotenski (una spettacolare figura di idiota totale) – tutto resta ancora nella dimensione dell’elemento di colore: Achilla incarna, in modo schematico e anche stereotipato, l’elemento popolaresco e sanguigno. Sarà nella quinta e conclusiva sezione del romanzo che Achilla assumerà rilievo definitivo. Il particolare rapporto di affetto che univa il diacono e l’arciprete è chiaro sin dall’inizio: per l’anziano padre Savieli Tuberozov, il diacono è quel figlio che l’amata moglie Natalia non ha potuto dargli, e il suo amore per lui è quello per un figlio scapestrato, sempliciotto, turbolento, ma al quale si riconosce una bontà incondizionata. Così come l’amore di Achilla per l’arciprete mescola quello del figlio per il padre, del semplice per l’astro del proprio sistema di riferimento, del cane per il suo padrone. Quando padre Savieli morirà, un Achilla schiantato dal dolore assumerà su di sé il compito di preservarne la memoria, in corsa contro la propria morte, che il colosso presentiva. Ad Achilla erano venute meno le sue sicurezze: nella propria forza fisica, quando il furfante Termosiesov lo aveva colpito a tradimento; nell’arciprete, sottrattogli dalla morte e ancor prima dall’interdetto arcivescovile; forse nella stessa religione, che prima punisce ingiustamente Tuberozov e poi dopo la sua morte lo sostituisce come niente fosse con un nuovo arciprete. Nella vita stessa, in ultima analisi, che con il suo continuare quieto intorno alla sua disperazione gli viene a frantumare la griglia di certezze all’interno delle quali il diacono aveva identificato la propria esistenza.

Tuttavia pure le figure dei due religiosi, dapprima in parte diminuite dal coro degli altri personaggi e poi libere di giganteggiare, restano elementi troppo poco coesi per “fare romanzo”. Basterebbe l’importanza che assumono altre due figure: Termosiesov, mattatore assoluto della terza sezione dell’opera e Nikolaj Afanasievic, la cui presenza emerge qui e là nell’arco di tutta l’opera.

La terza parte de I Preti di Stargorod fa quasi storia a sé, sia per il vigore del personaggio di Termosiesov che perché egli e il suo superiore Bornovolokov sono presenti solo qui, e al massimo citati di sfuggita in seguito. Anche se è proprio Termosiesov ad assumere il ruolo di frangitore dell’equilibrio (seppure instabile) di Stargorod, innescando con i suoi inganni, truffe e crimini vari gli eventi che infine risulteranno nella morte di padre Savieli e Achilla.

Con Termosiesov Leskov ci consegna una formidabile figura di ribaldo. Nella dimensione di un romanzo, sarebbe stato un personaggio degno di figurare accanto a un Uriah Heep. Qui diventa il protagonista assoluto di un racconto nel racconto; schizzato in poche ed efficacissime battute affiora il ritratto di un vero amorale. La malvagità di Termosiesov è istintiva, ferina, noncurante. Anche quando egli studia e si applica nell’esecuzione di un’azione atta a recare un danno gratuito a qualcuno, il primo movente che emerge è che egli agisce perché può farlo. Perché forse è divertente. E perché ne ricava un vantaggio, certo. Ma la netta impressione è che soprattutto si diverta: a ingannare donnette credule e vanitose; a tenere in pugno individui fragili e abietti come il principe suo superiore; a far del male a persone migliori di lui come padre Savieli; a sfidare il buon diacono perché potrà sempre sgambettarlo confidando nell’ingenuità di questi. Quel che perde in profondità nel ritrarre questo suo avventuriero, Leskov lo guadagna in vigore e colore del racconto. Nel gioco verbale.

Nikolai Afanasievic, il piccolo uomo, il nano servo della gleba della boiarda Plodomasova è invece tutt’altro personaggio. Attraverso di lui Leskov pare quasi voler fare un riassunto di quello che egli ritiene sia il carattere del suo popolo: mite, semplice, rispettoso di chi considera superiore a sé; ma anche determinatissimo, fedele all’amicizia fino alla morte, saggio. Il santino è però rischiarato dalla grande umanità che Leskov vi trasfonde. La tessitura degli eventi che lo coinvolgono, le sue parole e quelle degli altri personaggi su di lui sono sempre così sincere e genuine che il piccolo Nikolai perde la falsità che una figura del genere potrebbe finire con l’assumere e si riveste di un lirismo dolce e soffuso che lo rende uno dei personaggi indimenticabili di questo romanzo.

Se tutti gli altri uomini e donne che ruotano attorno alla vita di Stargorod sono meno rilevanti e decisivi, compreso il terzo dei preti, quel mite e incolore padre Zacharia Benefaktov cui l’autore concede però l’ultima parola facendolo morire dopo i confratelli, a suggello delle cronache di Stargorod; è non meno vero che a tutti Leskov concede lo spazio di una breve illuminazione, uno squarcio narrativo durante il quale in poche righe ci presenta un uomo o una donna, e soprattutto un’anima. Da quel Varnava Prepotenski che si crede un moderno intellettuale ed è un povero cretino, alla sua in tutto degna amica Biziukina; dalla tragica figura di Danilka, tra lo scemo del villaggio e lo spostato moderno, e che sarà causa indiretta della morte di Achilla, al maresciallo della nobiltà Tuganov, che sotto l’apparente cinismo e disinteresse per tutto rivela una grande generosità; dal ritratto, a un tempo spietato e umanissimo che da della nobiltà terriera con la figura di Marfa Plodomasova, che ha grande affetto per Nikolai ma lo umilia senza neppure accorgersene, alla moglie del direttore dell’ufficio postale di Stargorod, tutta compresa nelle sue piccinerie di borghesuccia.

E’ difficile raccapezzarsi in questa congerie di umanità, in questa eterogenea umanità. Difficile rintracciare un filo comune che conduca a un’identità del romanzo, che possa rappresentare la filigrana de I Preti di Stargorod. Eppure è proprio questa pluralità di voci e di quadri, questa varietà a rappresentare in qualche modo un elemento unificante, di coesione. Queste sono davvero le cronache di Stargorod, questa città immaginaria epitome di tutta la Russia. E sono le cronache del suo clero. Così umano, così lontano dal rappresentare un modello, così impermeabile alla realtà che si fa strada nel mito di una Russia immobile; ma anche così dolce, così buono, così amorevole. Così lontano dalla chiesa burocratica. Anche padre Savieli, che in qualche modo dovrebbe rappresentare una figura di intellettuale, acquista vero corpo quando ne vediamo emergere il lato in un certo modo più infantile: quella caparbietà pura, incontaminata, che lo porta di puro impeto a rifiutare il compromesso con l’autorità, a ricercare l’integrità assoluta senza deflettere dai propri convincimenti. E il cruccio che porterà con sé nella tomba per non essere in alcun modo riuscito a ricomporre, nel suo piccolo distretto, lo scisma con i “Vecchi Credenti”, scisma vecchio di due secoli con quella parte di popolazione che restava attaccata a una religiosità medievale, al culto delle icone.

Cronache, e dunque il semplice racconto della vita. E del resto è esattamente quanto Leskov fa: ci racconta delle esistenze come esse si svolgono. Ci fa conoscere i protagonisti di queste esistenze. E ce li fa amare. E non potrebbe riuscirci senza lo spirito arguto che vena tutta l’opera, stemperandone anche i frangenti più drammatici.

Un umorismo rotondo, saporito, schietto. Talora macabro. Anzi specialmente macabro. La stupidità di Varnava ci si rivela nella assurda sottotrama dello scheletro dell’annegato. A “fini scientifici”, Varnava ottiene dal sindaco e dal medico locale di poter disporre del cadavere di un annegato; ne squaglia la carne nella caldaia per poter avere le ossa pulite in modo da studiarne la struttura scheletrica. Ciò che segue, con la disputa del professore con l’anziana e piissima madre e il manesco diacono è da antologia della risata. Sarebbe tutto molto serio, se il “martire della scienza” avesse un solo grammo di cervello invece di essere un tacchino vestito a festa. Ancora più macabro è il tono da commedia nera sul quale si chiude il romanzo, con quell’ultimo episodio del “diavolo” che terrorizza la cittadinanza di Stargorod. Il diavolo altri non è che un Danilka ridotto alla fame dall’esilio comminatogli, che si traveste con pelli di pecora, corna di vacca e uncini da lavoro per rapinare gli sprovveduti. Nonostante le apparenze, quello che meno di tutti crederà alla pagliacciata è proprio Achilla, che catturerà il “diavolo”, ma per farlo prenderà una tale infreddatura da andare all’altro mondo.

In mezzo si sprecano gli episodi dove questo spirito emerge, e nella storia di Marfa Plodomasova che vorrebbe far sposare Nikolai con una nana finlandese si arriva tranquillamente alla crudeltà. Non goliardico, dunque, ma sapiente mi viene da dire. C’è una profonda saggezza nell’umorismo leskoviano, nell’understatement con il quale contrappunta di leggerezza la vita dei suoi preti, uomini e donne di Stargorod. Leggerezza a volte cattiva, come è la vita.

Può darsi che non sia un romanzo perfetto I Preti di Stargorod; ma la verve verbale di Leskov, l’impeto sentimentale che mette nelle sue pagine e personaggi, la trama così fitta e colorata delle vite che racconta – tutto questo converge a creare un’opera che supera i suoi difetti e va oltre i suoi pregi, per presentarci qualcosa che è ben di più di uno spaccato di Russia del XIX secolo: uno spaccato di umanità attraverso il tempo.

Ecco, è questo che fa un classico.