giovedì 17 giugno 2010

Quattro racconti di Saki (Hector Hugh Munro): Tobermory / The Unrest-cure / Sredni Vashtar / The Story-teller


Considerato in genere un autore “minore”, forse anche per la quasi esclusiva propensione a scrivere racconti brevi o brevissimi, Saki ci ha però consegnato un ritratto della società britannica del suo tempo di rare incisività e cattiveria.

Con la sua penna avvelenata, questo fecondo maestro della short story ha tratteggiato in rilievo una galleria completa di tipi umani: le persone dabbene della società edoardiana, quella varia umanità post-vittoriana erede diretta dei riti, le fobie, le inibizioni che hanno caratterizzato un’epoca assurta a simbolo dell’ipocrisia borghese con le sue piccinerie e censure spirituali. Saki unisce nei suoi racconti una grande abilità nella costruzione di trame efficaci, il gusto quasi sadico per una satira di costume tanto efferata quanto senza appello, e quello beffardo e thrilling per il dettaglio macabro. Lo sorreggono la finezza con la quale pennella in poche battute i personaggi e la destrezza con cui fa uso delle risorse linguistiche a sua disposizione. Nello spazio di brevi racconti forse non è possibile fornire approfondite analisi psicologiche, eppure le sintetiche descrizioni di Saki sono così taglienti da arrivare ugualmente in profondità e consegnare al lettore, completamente indifesi e nudi, i bersagli dei suoi strali. La lingua inglese, con quei vertici di formalismo rari tra le lingue europee e la ricchezza e plasticità del suo vocabolario, gli permetteva accuratezza estetizzante per il dettaglio e precisione iperrealista nella caricatura, entrambe decisive per l’abrasiva istantanea di vita edoardiana che egli compose. E, va detto, per la non meno abrasiva satira di comportamenti, abitudini, schemi di pensiero che non sono limitati entro epoche storiche o luoghi geografici, ma assumono piuttosto caratteri di universalità. Irregolare della letteratura e della società, personaggio complesso e problematico, tormentato spirito avventuroso sul quale forse incise la nascita nelle colonie, in Birmania, e la frustrazione per il fallito ritorno in quei luoghi durante la prima età adulta, Hector Hugh Munro sviluppò sotto il nom de plume di Saki quella distaccata osservazione dei suoi simili che tradusse nella ferocia con cui li mise alla berlina e che lascia quasi del tutto fuori uno slancio umanistico di redenzione.

Saki scrisse la quasi totalità dei suoi racconti nell’arco di poco più di un decennio, dal 1902 allo scoppio della I Guerra Mondiale per la quale partì volontario benché non fosse più di primo pelo. Morirà nel 1916 sul fronte francese.

Tobermory, The Unrest-cure, Sredni Vashtar e The Story-teller sono tra i racconti più noti dell’autore e sono stati recentemente ristampati nell’ambito dell’iniziativa editoriale delle Short Stories dell’Espresso, che da tempo offre in allegato al settimanale dei libretti che presentano, nel testo originale e in traduzione italiana a fronte, racconti o brevi novelle dal ricchissimo patrimonio della narrativa breve delle letterature anglosassoni.

Tobermory mette in scena le dinamiche che si instaurano all’interno di un gruppo nutrito di quegli esponenti della buona società inglese del tempo. Saki li riunisce in una grande villa di campagna, ospiti degli abbienti padroni di casa. Sono certamente annoiati, pettegoli, ottusi, aridi, concentrati sulle futilità della loro vita e sugli obblighi di mascheratura imposti da un’ipocrisia che è profondo habitus mentale ancor più e prima che stile di vita. I cortesi e oliati rituali del gruppo vanno in frantumi quando l’autore attua l’éscamotage di una diversione nel surreale introducendo il bizzarro personaggio di Cornelius Appin, a metà tra il ciarlatano e lo scienziato genialoide. Questi annuncia di aver finalmente coronato lo scopo di tutta la sua vita, riuscendo a insegnare a parlare al gatto di casa, Tobermory. Una bellissima cosa, se non fosse che Tobermory, prontamente convocato dinnanzi al consesso degli sfaccendati riuniti, mette in mostra la riprovevole abitudine di raccontare la verità iniziando a spiattellare gli altarini degli umani presenti: chi ha detto cosa di chi altro; chi vede chi; abitudini più o meno vergognose; scopi meschini più o meno reconditi. Per fortuna di molti, il gatto si interrompe dopo le prime rivelazioni per gettarsi alla rincorsa del grosso gatto dei vicini. L’esibizione è stata più che sufficiente, però, per gettare il gruppo nel pieno scompiglio e far venire i sudori freddi a tutti. Ha così inizio, mentre ci si guarda in cagnesco e affiora il malanimo, la discussione su come correre ai ripari – ovvero come far fuori il linguacciuto felino (e un pensierino viene dedicato anche al suo insegnante…). Da pungente, Saki si fa beffardo e crudele. Macabro. Forse perfino malvagio. Le mille paure, i trasalimenti di questi begli esemplari umani, il loro affannoso chiedere alla servitù se il gatto è rientrato e ha mangiato dalla sua scodella rifornita del cibo che si è alla fine deciso di avvelenare come soluzione più semplice: Saki è a dir poco diabolico nel conferire tutta la coloritura nera del caso a dialoghi e azioni, e spessore tridimensionale all’atmosfera di risentimento e sospetto creata. Tobermory libererà la compagnia dalle ambasce facendosi ritrovare il giorno dopo cadavere in giardino, scannato dal gattone dei vicini. Ma è proprio il sollievo e il ricomporsi dei rituali a rappresentare un’ulteriore frustata di Saki, che poi affida la chiusura, su una nota di umorismo nerissimo, a Clovis, personaggio ricorrente dei suoi racconti e al quale spesso delegava il compito di assestare qualche legnata ai benpensanti. Questi, commentando la notizia che Cornelius Appin era morto calpestato dagli elefanti allo zoo di Dresda in Germania, si esprimerà affermando che “If he was trying German irregular verbs on the poor beasts, he deserved all he got.”.

Clovis torna in The Unrest-cure, dove è anzi il mattatore. Riflessa in quella di una ricca coppia di fratello e sorella, Saki mette alla gogna la più vieta abitualità nei comportamenti umani, che qui sfocia nel ridicolo del disagio spirituale provato da una coppia di fratello e sorella perché un tordo – forse un tordo diverso da quello che loro conoscono da anni – ha fatto il nido in un punto del giardino diverso dal solito. La miseria e la monotonia di esistenze che hanno giorni e orarii programmati per avere mal di testa. Clovis ascolta in treno i discorsi del fratello, J.P.Huddle, il tedio infinito per una vita senza accadimenti eppure terrorizzata da ogni possibile imprevisto. Decide perciò di offrire ai due una speciale Unrest-cure: una cura dell’Antiriposo. Il modo in cui gliela procurerà non è importante (lascia però ammirati il funambolismo verbale e scenico messo in atto da Saki per farlo). Ciò che è importante è la tempesta psicologica e domestica, descritta in modo magistrale, che la burla architettata da Clovis con smagata cattiveria scatenerà nei malcapitati fratello e sorella. I due ne escono a pezzi, come a pezzi escono dalla descrizione del rapporto di sudditanza psicologica della upper class nei riguardi della Chiesa. Ancora una volta il black humour di Saki trionfa, e il lettore prova un perverso piacere nell’assistere all’angoscia degli Huddle che pensano di ospitare in casa loro l’arcivescovo, il quale avrebbe deciso di sterminare gli ebrei del circondario, servendosi alla bisogna anche di un manipolo di feroci boy-scout. Shock and awe, si direbbe oggi. Ma forse è solo che gli Huddle sono così terribilmente formali e dabbene. Insomma ottusi.

Sredni Vashtar, tra i quattro racconti, è forse quello dove il macabro e la crudeltà raggiungono il culmine. L’aspetto satirico si stempera e lascia maggiore spazio agli aspetti psicologici della vicenda e ai dettagli grotteschi. Sredni Vashtar è un grosso furetto. L’animale è segretamente custodito in una rimessa da Conradin, il bambino protagonista del racconto. Di Conradin sappiamo che è ammalato, e probabilmente non vivrà a lungo, e che odia la cugina, la signora De Ropp, la quale MAI dovrà venire a conoscenza dell’esistenza di Sredni Vashtar. Cugina e tutrice, la signora De Ropp è incarnazione di tutto ciò che è rispettabile, normale, rigido e privo di fantasia. La fantasia è invece la sola arma con la quale Conradin sfugge occasionalmente alla sua guardiana. Conradin ha fatto del suo furetto una divinità, a lui eleva preghiere e impetra grazie: quella di levargli di mezzo la cugina, per esempio e per prima. Nulla di troppo strano, a tutti noi è capitato di augurarci la più o meno serena dipartita di qualcuno particolarmente molesto. Magari non attraverso i buoni uffici di un nume privato con le sembianze di un mustelide. Però un bambino solitario, malato e dall’immaginazione fertile e infiammata può certamente arrivarci. Al mustelide. Saki elabora studiatamente la psicologia e i comportamenti del bambino, e le opposte reazioni della donna. Dal loro reciproco non sopportarsi, malcelato soprattutto nel caso della adulta, traspare in filigrana e poi con sempre maggiore evidenza la potenza patogena delle convenzioni sgradite che costellano i legami familiari; il sadismo che sovente ne consegue nelle relazioni interpersonali tra chi detiene e chi subisce il potere; e il risentimento che si stratifica nel tempo per poi esplodere apparentemente a sorpresa. Ed è proprio ciò a cui assistiamo: i piccoli e grandi sadismi, il risentimento che monta. E le preghiere a Sredni Vashtar. E’ con gioia evidente che al termine di una vera e propria caccia al tesoro, la signora De Ropp, insospettita dalla frequenza e durata delle visite di Conradin alla rimessa, gli sottrae la chiave della misteriosa gabbia che il bambino custodisce. Saki si supera nella fulminea descrizione dello psicodramma che segue: il bambino assiste dalla finestra della cucina all’ingresso trionfale della donna nella rimessa, in un tumulto di emozioni si rivolge al furetto per un’ultima, disperata preghiera. Un miracolo. La donna gli ha già tolto la gallina con cui pure giocava, ora sarà la volta del suo dio? Sempre più turbato, Conradin non vede la donna uscire con il tempo che passa. Finché a uscire furtivo è Sredni Vashtar. Saltellante, l’animale si allontana, il pelo del muso e le zanne che colano un liquido scuro: Conradin si imburra abbondantemente del pane tostato, azione che la signora De Ropp non approverebbe. Quando la servitù cercherà la signora, e proromperanno infine le urla, il personale di casa prenderà a interrogarsi su chi avrebbe avuto il coraggio di dare la notizia ferale al bambino. And while they debate the matter among themselves Conradin made himself another piece of toast. Be’, chapeau! E rest in peace, Mrs De Ropp.

The Story-teller presenta una vicenda molto simile, ma con la fondamentale differenza che essa accade nel racconto che un uomo fa per intrattenere tre ragazzini. Il contastorie del titolo è un povero diavolo, un giovane che si ritrova nello scompartimento del treno una zia con tre ragazzini, due femmine e un maschio. Tre pestiferi elementi, mai zitti, in continuo movimento, indisciplinati, rumorosi, petulanti. Tre corifei dell’eterna inesausta domanda: perché? Il viaggio sarà ancora lungo. La situazione porge il destro a Saki per esporre in modo tanto succinto quanto completo la sua poetica e forse il senso stesso della letteratura. Quando infatti la zia, nel miseramente fallito tentativo di tener buoni i tre piccoli selvaggi racconta loro la storia di una bambina buonissima, diligentissima, perfettissima – e premiata dagli eventi per questo – il giovane interverrà criticandone il talento di contastorie. Sfidato dalla zia a far meglio, narrerà a sua volta la storia di una bambina buonissima, diligentissima, perfettissima – e premiata per questo con ben tre medaglie. Ma questa bambina è horribly good. E al sentire l’avverbio l’attenzione del giovanissimo uditorio si desta e le orecchie si drizzano. Bertha, la bambina horribly good, riceverà il giusto guiderdone della sua horrible goodness:per l’intempestivo tintinnare delle medaglie che porta appuntate sulla vestina, verrà divorata da un lupo nel giardino del Principe (ciò che, per il giubilo dei tre ragazzini, permette tra l’altro ai maiali del Principe di salvarsi dal lupo). La zia è debitamente scandalizzata per una storia dove la bontà non è premiata (e che i ragazzini hanno molto gradito: the story began badly, but it had a beautiful ending dice la più piccola delle femminucce). Ma il giovane le risponderà I kept them quiet for ten minutes, which was more than you were able to do. Forse la storia non sarà stata molto educativa, è vero, ma l’apologo fulminante di Saki centra il punto fondamentale: per insegnare si deve partire dal coinvolgimento di chi apprende. Così come il solo peccato mortale della letteratura è di risultare noiosa.

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