mercoledì 26 maggio 2010

I Preti di Stargorod - Nikolaj Semënovič Leskov


Leskov non è certo il più reputato dei grandi narratori russi del XIX secolo. A questo concorrono probabilmente due aspetti: il suo essere soprattutto un novellista d’eccezione in una terra e un tempo di fluviali romanzieri e poeti ardenti, e un’apparente maggior leggerezza dei temi.

I Preti di Stargorod – Cronaca (il cui titolo originale suonerebbe un ancor più asciutto “Preti”, sempre con quel sottotitolo: “cronaca”) è forse il suo romanzo più noto, e mi pare in grado di rendere giustizia al suo autore. Per un verso esso evidenzia i limiti – se di limiti necessariamente si tratta – di Leskov: come romanzo si mostra  infatti eterogeneo, le sue parti non appaiono equilibrate e all’apparenza manca di coesione narrativa: quel sottotitolo Cronaca sembra descriverlo alla perfezione, più cronaca giornalistica che (re)invenzione letteraria, analisi della realtà. Ma tra le pieghe di questi limiti – o meglio dandosi cura di leggere con attenzione il romanzo – se ne scorge il superamento per altre vie.

Il romanzo appare disarmonico ed eterogeneo perché indubbiamente lo è, sin dalla sua genesi: le sue parti vennero infatti disparatamente pubblicate nel corso di un decennio circa. Ma proprio la sua natura cronachistica permette a Leskov di volgere in pregio questo difetto: I Preti di Stargorod finisce con l’essere una somma di racconti, e di racconti nei racconti, terreno sul quale l’autore si muove con grande sicurezza grazie all’abilità di sintesi che mostra nello schizzare i caratteri, nel tratteggiare in economia una psicologia completa, nel vigore emozionale che sa imprimere ai brevi scorci lirici che intessono la narrazione: verso la fine del romanzo è magistrale la descrizione della tempesta che coglie nella campagna padre Tuberozov, dello smarrimento dell’arciprete di fronte alla grandiosità della natura, e vi si avverte in modo sottilissimo ma pieno la prefigurazione della morte che coglierà l’anziano religioso di lì a non molto.

Ma una somma di racconti non fa ancora un romanzo. Un primo elemento unitario, labile, si può rintracciare nello spirito ambiguo che anima tutto il romanzo, sospeso tra un senso incombente di morte e l’erompere di una vitalità molto russa e molto prepotente; ambiguità che si risolve nella ciclicità naturale della vita. Per il clero di Stargorod era giunta un’epoca di completo rinnovamento: così Leskov conclude il romanzo. Una cronaca ha termine, se mai dovrebbe iniziarne una nuova. A una stagione ne succede un’altra.   
La spartana edizione BUR del libro (1962)

Un secondo elemento unitario, neppure esso decisivo, sono le figure stesse dei preti della città di Stargorod. Quanto meno dei due che nell’economia di questo romanzo dispersivo e anarchico assumono ruoli centrali, prossimi a quelli di veri e propri protagonisti (e comunque si tratta dei soli personaggi tali da configurarsi come protagonisti): l’arciprete Tuberozov e il diacono Achilla.

Sebbene la prima parte del romanzo - che da sola ne occupa quasi un terzo - e la seconda siano corali e presentino una galleria umana straordinaria per varietà e finezza di rappresentazione, anche se spesso il bozzetto prevale sul grande ritratto, già in esse il diacono e l’arciprete assumono un rilievo particolare, e l’autore si sofferma sull’esteriorità dei loro gesti e gesta, se non ancora sulla loro anima e pensieri profondi.

Nella prima parte, la lunga ricognizione del diario dell’arciprete vuole mostrarci uno spirito ardente e puro, ma resta ancora superficiale: Leskov ci dice troppo, e come spesso accade quando l’autore prende il posto del suo personaggio finisce per dirci troppo poco: per raccontarci in luogo di mostrarci. E’ sicuramente la sequenza più debole dell’opera. Sarà nella quarta parte del romanzo, quando egli lascerà a Tuberozov tutto il campo, che la grande anima dell’arciprete ci si rivelerà nelle sue azioni e pensieri, non più raccontati ma lasciati alla nostra osservazione di lettori. Sarà qui che la grande complessità della personalità dell’arciprete ci svelerà la sua celata semplicità; che la sua asprezza lascerà vedere in controluce l’onestà disposta a qualunque sacrificio; che l’ottusità del pope, grattatane la superficie farà affiorare tutto l’amore del vero – rarissimo – cristiano. In ultima analisi è qui che la semplicità di padre Tuberozov torna a mostrarci tutta la complessità della sua figura letteraria e di uno spirito sofferto incapace di scendere a compromessi, e che sempre ha anteposto il rispetto della genuina legge (divina) al rispetto per le gerarchie (terrene). Si può non essere d’accordo con l’arciprete ma non si può non ammirarlo.      

Anche Achilla, il gigantesco, esuberante, eccessivo diacono non emerge ancora del tutto nelle prime due parti del romanzo. Le sue (dis)avventure, le vere e proprie monellerie, il vicendevole farsi la forca con i nemici “intellettuali” anticlericali come il professore Varnava Prepotenski (una spettacolare figura di idiota totale) – tutto resta ancora nella dimensione dell’elemento di colore: Achilla incarna, in modo schematico e anche stereotipato, l’elemento popolaresco e sanguigno. Sarà nella quinta e conclusiva sezione del romanzo che Achilla assumerà rilievo definitivo. Il particolare rapporto di affetto che univa il diacono e l’arciprete è chiaro sin dall’inizio: per l’anziano padre Savieli Tuberozov, il diacono è quel figlio che l’amata moglie Natalia non ha potuto dargli, e il suo amore per lui è quello per un figlio scapestrato, sempliciotto, turbolento, ma al quale si riconosce una bontà incondizionata. Così come l’amore di Achilla per l’arciprete mescola quello del figlio per il padre, del semplice per l’astro del proprio sistema di riferimento, del cane per il suo padrone. Quando padre Savieli morirà, un Achilla schiantato dal dolore assumerà su di sé il compito di preservarne la memoria, in corsa contro la propria morte, che il colosso presentiva. Ad Achilla erano venute meno le sue sicurezze: nella propria forza fisica, quando il furfante Termosiesov lo aveva colpito a tradimento; nell’arciprete, sottrattogli dalla morte e ancor prima dall’interdetto arcivescovile; forse nella stessa religione, che prima punisce ingiustamente Tuberozov e poi dopo la sua morte lo sostituisce come niente fosse con un nuovo arciprete. Nella vita stessa, in ultima analisi, che con il suo continuare quieto intorno alla sua disperazione gli viene a frantumare la griglia di certezze all’interno delle quali il diacono aveva identificato la propria esistenza.

Tuttavia pure le figure dei due religiosi, dapprima in parte diminuite dal coro degli altri personaggi e poi libere di giganteggiare, restano elementi troppo poco coesi per “fare romanzo”. Basterebbe l’importanza che assumono altre due figure: Termosiesov, mattatore assoluto della terza sezione dell’opera e Nikolaj Afanasievic, la cui presenza emerge qui e là nell’arco di tutta l’opera.

La terza parte de I Preti di Stargorod fa quasi storia a sé, sia per il vigore del personaggio di Termosiesov che perché egli e il suo superiore Bornovolokov sono presenti solo qui, e al massimo citati di sfuggita in seguito. Anche se è proprio Termosiesov ad assumere il ruolo di frangitore dell’equilibrio (seppure instabile) di Stargorod, innescando con i suoi inganni, truffe e crimini vari gli eventi che infine risulteranno nella morte di padre Savieli e Achilla.

Con Termosiesov Leskov ci consegna una formidabile figura di ribaldo. Nella dimensione di un romanzo, sarebbe stato un personaggio degno di figurare accanto a un Uriah Heep. Qui diventa il protagonista assoluto di un racconto nel racconto; schizzato in poche ed efficacissime battute affiora il ritratto di un vero amorale. La malvagità di Termosiesov è istintiva, ferina, noncurante. Anche quando egli studia e si applica nell’esecuzione di un’azione atta a recare un danno gratuito a qualcuno, il primo movente che emerge è che egli agisce perché può farlo. Perché forse è divertente. E perché ne ricava un vantaggio, certo. Ma la netta impressione è che soprattutto si diverta: a ingannare donnette credule e vanitose; a tenere in pugno individui fragili e abietti come il principe suo superiore; a far del male a persone migliori di lui come padre Savieli; a sfidare il buon diacono perché potrà sempre sgambettarlo confidando nell’ingenuità di questi. Quel che perde in profondità nel ritrarre questo suo avventuriero, Leskov lo guadagna in vigore e colore del racconto. Nel gioco verbale.

Nikolai Afanasievic, il piccolo uomo, il nano servo della gleba della boiarda Plodomasova è invece tutt’altro personaggio. Attraverso di lui Leskov pare quasi voler fare un riassunto di quello che egli ritiene sia il carattere del suo popolo: mite, semplice, rispettoso di chi considera superiore a sé; ma anche determinatissimo, fedele all’amicizia fino alla morte, saggio. Il santino è però rischiarato dalla grande umanità che Leskov vi trasfonde. La tessitura degli eventi che lo coinvolgono, le sue parole e quelle degli altri personaggi su di lui sono sempre così sincere e genuine che il piccolo Nikolai perde la falsità che una figura del genere potrebbe finire con l’assumere e si riveste di un lirismo dolce e soffuso che lo rende uno dei personaggi indimenticabili di questo romanzo.

Se tutti gli altri uomini e donne che ruotano attorno alla vita di Stargorod sono meno rilevanti e decisivi, compreso il terzo dei preti, quel mite e incolore padre Zacharia Benefaktov cui l’autore concede però l’ultima parola facendolo morire dopo i confratelli, a suggello delle cronache di Stargorod; è non meno vero che a tutti Leskov concede lo spazio di una breve illuminazione, uno squarcio narrativo durante il quale in poche righe ci presenta un uomo o una donna, e soprattutto un’anima. Da quel Varnava Prepotenski che si crede un moderno intellettuale ed è un povero cretino, alla sua in tutto degna amica Biziukina; dalla tragica figura di Danilka, tra lo scemo del villaggio e lo spostato moderno, e che sarà causa indiretta della morte di Achilla, al maresciallo della nobiltà Tuganov, che sotto l’apparente cinismo e disinteresse per tutto rivela una grande generosità; dal ritratto, a un tempo spietato e umanissimo che da della nobiltà terriera con la figura di Marfa Plodomasova, che ha grande affetto per Nikolai ma lo umilia senza neppure accorgersene, alla moglie del direttore dell’ufficio postale di Stargorod, tutta compresa nelle sue piccinerie di borghesuccia.

E’ difficile raccapezzarsi in questa congerie di umanità, in questa eterogenea umanità. Difficile rintracciare un filo comune che conduca a un’identità del romanzo, che possa rappresentare la filigrana de I Preti di Stargorod. Eppure è proprio questa pluralità di voci e di quadri, questa varietà a rappresentare in qualche modo un elemento unificante, di coesione. Queste sono davvero le cronache di Stargorod, questa città immaginaria epitome di tutta la Russia. E sono le cronache del suo clero. Così umano, così lontano dal rappresentare un modello, così impermeabile alla realtà che si fa strada nel mito di una Russia immobile; ma anche così dolce, così buono, così amorevole. Così lontano dalla chiesa burocratica. Anche padre Savieli, che in qualche modo dovrebbe rappresentare una figura di intellettuale, acquista vero corpo quando ne vediamo emergere il lato in un certo modo più infantile: quella caparbietà pura, incontaminata, che lo porta di puro impeto a rifiutare il compromesso con l’autorità, a ricercare l’integrità assoluta senza deflettere dai propri convincimenti. E il cruccio che porterà con sé nella tomba per non essere in alcun modo riuscito a ricomporre, nel suo piccolo distretto, lo scisma con i “Vecchi Credenti”, scisma vecchio di due secoli con quella parte di popolazione che restava attaccata a una religiosità medievale, al culto delle icone.

Cronache, e dunque il semplice racconto della vita. E del resto è esattamente quanto Leskov fa: ci racconta delle esistenze come esse si svolgono. Ci fa conoscere i protagonisti di queste esistenze. E ce li fa amare. E non potrebbe riuscirci senza lo spirito arguto che vena tutta l’opera, stemperandone anche i frangenti più drammatici.

Un umorismo rotondo, saporito, schietto. Talora macabro. Anzi specialmente macabro. La stupidità di Varnava ci si rivela nella assurda sottotrama dello scheletro dell’annegato. A “fini scientifici”, Varnava ottiene dal sindaco e dal medico locale di poter disporre del cadavere di un annegato; ne squaglia la carne nella caldaia per poter avere le ossa pulite in modo da studiarne la struttura scheletrica. Ciò che segue, con la disputa del professore con l’anziana e piissima madre e il manesco diacono è da antologia della risata. Sarebbe tutto molto serio, se il “martire della scienza” avesse un solo grammo di cervello invece di essere un tacchino vestito a festa. Ancora più macabro è il tono da commedia nera sul quale si chiude il romanzo, con quell’ultimo episodio del “diavolo” che terrorizza la cittadinanza di Stargorod. Il diavolo altri non è che un Danilka ridotto alla fame dall’esilio comminatogli, che si traveste con pelli di pecora, corna di vacca e uncini da lavoro per rapinare gli sprovveduti. Nonostante le apparenze, quello che meno di tutti crederà alla pagliacciata è proprio Achilla, che catturerà il “diavolo”, ma per farlo prenderà una tale infreddatura da andare all’altro mondo.

In mezzo si sprecano gli episodi dove questo spirito emerge, e nella storia di Marfa Plodomasova che vorrebbe far sposare Nikolai con una nana finlandese si arriva tranquillamente alla crudeltà. Non goliardico, dunque, ma sapiente mi viene da dire. C’è una profonda saggezza nell’umorismo leskoviano, nell’understatement con il quale contrappunta di leggerezza la vita dei suoi preti, uomini e donne di Stargorod. Leggerezza a volte cattiva, come è la vita.

Può darsi che non sia un romanzo perfetto I Preti di Stargorod; ma la verve verbale di Leskov, l’impeto sentimentale che mette nelle sue pagine e personaggi, la trama così fitta e colorata delle vite che racconta – tutto questo converge a creare un’opera che supera i suoi difetti e va oltre i suoi pregi, per presentarci qualcosa che è ben di più di uno spaccato di Russia del XIX secolo: uno spaccato di umanità attraverso il tempo.

Ecco, è questo che fa un classico.

mercoledì 19 maggio 2010

Il cane Iodok - Aleksey Meshkov


S’ha un bel girare e rigirare tra le mani il libro una volta terminatane la lettura; il sopracciglio del lettore continuerà a inarcarsi nella perplessità di cosa abbia letto. Eppure, per molti versi, Il Cane Iodok è un esempio di chiarezza.

Con eleganza esso presenta infatti la metafora esplicita della Russia dei nostri giorni, della sua società permeata di rassegnazione, rinuncia, vigliaccheria, complicità con un potere che estende inavvertito i suoi tentacoli mettendo in scena la finzione della democrazia e la realtà di un’autocrazia tanto morbida nella sua ufficialità quanto brutale nell’autodifesa e nell’offesa. Se la metafora è esplicita e dichiarata, gli strumenti narrativi e l’architettura descrittiva del breve romanzo si sottraggono a ogni facile (e anche difficile) catalogazione e analisi.

Io, Iodok, l’uomo-cane, sono l’apostata, il rinnegato dal branco. Il protagonista e io narrante ripete di continuo questo mantra che ne suggella l’identità e rappresenta il programma estetico del romanzo. Chi sia stato Iodok non ci è dato saperlo fino in fondo, come del resto è per molto altro in questo romanzo.. Ci viene detto che ha avuto un’infanzia e prima giovinezza siberiane, non infelici. Tutto ciò che sappiamo è che per salvarsi dalla caccia spietata degli inviati dello Zoo - il misterioso ente/potere che riassume in sé la deriva autoritaria, il potere criminale e la finzione della democrazia – egli entra nella pelle di un cane. Letteralmente. Trovato morente al bordo di una strada il cane Zenta, dopo aver assistito impotente alla morte dell’animale lo scuoierà e ne indosserà la pelliccia. Siamo nel pieno – e più bizzarro – territorio del surreale, che tra le differenze anche notevoli, pone un punto di contatto chiaro con il Cuore di cane di Bulgakov.

Il cane Iodok è l’apostata al punto da spingere la sua apostasia al piano biologico: all’interno della folta pelliccia del cane lupo l’uomo muterà, acquisendo i sensi del cane, molti dei suoi organi, conservando mutati molti dei propri. L’uomo-cane è tale in senso proprio, assume le abitudini, le posture del suo ospite. Si nutre con crescente abilità delle piccole prede che una natura da tempo addomesticata dall’uomo riesce ancora a fornire.

Sarà tutto inutile, e la paura indotta dalla pressione di una caccia che egli giustamente sente condotta con spietatezza lo indurrà a un passo ulteriore sulla via dell’identificazione con la natura canina: trovarsi un padrone. Si rifugia, Iodok, nel cuore stesso del sistema dello Zoo: la clinica veterinaria del professor Lyudov, sede di nebulosi e mai chiariti esperimenti, forse di condizionamento, forse di wellsiani esperimenti chirurgici. Alla lunga, però, si rivelerà inutile tutto: in un gioco in cui i confini tra la manipolazione della realtà (e del lettore stesso) e la sua surreale rappresentazione, l’intera fuga di Iodok potrebbe essere stato null’altro che un esercizio di quel potere al quale cercava di sfuggire. Il potere dello Zoo, radunate false prove contro l’uomo-cane lo giustizierà sommariamente. Sono esseri che appaiono a Iodok con fattezze di cane e non umane coloro che lo uccideranno. Forse è il riconoscimento finale della bestialità di un potere che, come Iodok aveva asserito, ha sostituito la Legge, ammantandosi del compito di garantirne l’esecuzione, così svuotandola dall’interno. O forse è il riconoscimento che nessuna fuga – come infatti succede – neppure quella dell’apostasia individuale, della fuoriuscita e del rinnegamento del branco (umano) è possibile, perché il Potere riassume in sé tutto e il contrario di tutto e la lotta per la propria libertà guadagna solo la morte perché non esistono spazi dove a libertà è possibile.

Benché il filtro surreale della stranezza impregni ogni frase del romanzo, e la stessa analisi politica e sociale della realtà sia resa attraverso questa lente deformante (e che però accentua l’affilatezza dell’analisi stessa), la scrittura evocativa dell’autore, sinuosa e sensuale come è, rende la lettura appassionante. Iodok è un narratore d’eccezione, superbo nelle descrizioni urbane e paesaggistiche, nel far vivere le proprie sensazioni, in uno sfoggio di “realismo canino” che accentua l’effetto di straordinario disorientamento dato da tutto l’impianto surreale del romanzo. E’ ingenuo nella sua analisi psicologica di alcuni dei personaggi, in ossequio a quel “realismo canino” viene da dire. Ma soprattutto è perfetto nel trasmettere per intero l’ansia paranoica della sua paura, l’intensità e la crudeltà della caccia alla quale lo Zoo lo sottopone. La paranoia, soprattutto: al punto che a volte si è tentati di pensare che ogni cosa non sia che il delirio di un folle.

Quella di Iodok non è una rivolta, è una dichiarazione filosofica ed etica di estraneità. Ma come lo Zoo non può tollerare – e schiaccia – le deboli forme di resistenza organizzata, così esso ancor meno può lasciar sussistere la radicale negazione incarnata da Iodok. Ciò che all’apparenza manca nel romanzo è appunto l’esistenza, la “chiamata alle armi” di una vera società resistenziale. Meshkov vi accenna solo di sfuggita. La scelta individuale e individualista di Iodok, fino al solipsismo, sembra una strada elitaria e folle, condannata di per sé al fallimento; ma uguale fallimento è destinato all’esistenza dei branchi di cani randagi sui quali si abbatte il pugno dello Zoo che li assorbirà entro il proprio ordine.

In realtà la scelta di Iodok è davvero la forma più pericolosa di resistenza al potere, rappresentando la forma finale di autonomia di pensiero, fino alla rinuncia di ogni vestigia del proprio passato. L’inevitabilità dello sconfitta dell’uomo-cane, troppo solo per poter sottrarsi alla pervasività del Potere conferisce a tutta la storia una luce di cupezza e disperazione: Io, Iodok, il nemico dell’ordine zoologico, dovevo morire nel silenzio,condannato da accuse false e infamanti. All’interno della pelle dell’animale simbolo della fedeltà all’uomo, Iodok morirà da uomo libero e salverà la propria anima, ma morirà. Poche pagine prima Meshkov aveva escluso con nettezza anche la possibilità di evasione nell’amore. Iodok concretizza il proprio amore per Vera, la segretaria del suo padrone, il professor Lyudov, ma in nessun momento della loro notte d’amore perde la lucidità e con essa la consapevolezza che il suo destino è segnato: la solitudine può essere interrotta episodicamente ma non elusa.

Le forme esteriori del thriller si adattano come un guanto alla materia dell’opera, agevolando il lettore nel cogliere ogni dettaglio del crescendo di terrore e paranoia che accompagna la parabola del cane Iodok, e permettendo di respirarne, di viverne il quadro d’insieme nel realizzarsi della minaccia dello Zoo. Né distopia né antiutopia, Il cane Iodok è una lettura esatta della realtà effettuata con gli strumenti del suo sovvertimento e della ricomposizione secondo coordinate che nella loro estraneità e bizzarria finiscono per apparirci ancor più precise nel cogliere quella stessa realtà.

Nel risvolto di copertina l’autore è detto di padre russo e madre italiana, e da alcuni anni trasferitosi nel nostro paese. In rete tutto quel che si trova in più è che il suo dovrebbe essere un nom de plume.  

 

Cuori d'altopiano - Alberto Gherardi


Le considerazioni che seguono le ho scritte ormai tempo fa, ma desidero iniziare questo blog parlando del libro di un amico.

Le valli e i luoghi bergamaschi, per me nato e cresciuto a Roma, e di Roma intriso, non si distinguono poi molto dai paesaggi lunari: rappresentano l'alieno. E per questo ero curioso: perché se lo scrittore è un narratore abile, quella alienità sa rapportarla alla comune umanità, offrendomi la chiave per osservare il suo mondo e comprenderlo. E infatti. Le valli si affacciano non solo - e non tanto - attraverso sé stesse, le descrizioni dei propri paesaggi, sentieri, montagne, scorci, tramonti; sono più i personaggi, i loro silenzi e la scontrosità di quasi tutti, anche quelli più caldi, quelli più solari. E' questa diffusa sobrietà, rudezza, a suggerire con discrezione senza l'invadenza dell'eccesso. Insomma, obliquamente, sei pienamente riuscito a presentarmi le tue valli. E a lasciar trasparire una spigolosità tutt'altro che priva di rientranze dove la sensibilità fa breccia.

Parole che si perdono (ascoltando: Rachmaninoff: Liturgia di San Giovanni Crisostomo, per coro; op.31 - prima parte)
Sin dal titolo c'è un avvertimento: le parole sono le protagoniste del racconto. Che in un'opera narrativa appare e pare banale; ma non è così: qui le parole sono ben più importanti dei personaggi, che pur nella loro relativa prevedibilità e schematicità hanno un buon vigore, una buona aderenza alla realtà; ma soprattutto la raggiungono via via, mostrandosi e scoprendosi per strada agli occhi del lettore. Parole che in realtà si ritrovano, più che perdersi; parole che costruiscono, non a caso, una storia che parte in sordina, personaggi che di frase in frase - di parola in parola - assumono una loro corporeità, per quanto più allusiva che materiale, che si lascia dietro l'impressione iniziale di scolasticità da manuale. Parole all'inizio stipate, che di aggettivo in aggettivo acquistano scioltezza e confidenza con la storia; all'inizio mostrano una solitudine umana che quegli aggettivi riempiono in eccesso, cui danno un senso di prevedibilità attraverso il compiacimento per il vocabolo ricercato, per il termine che colpisca programmaticamente la fantasia del lettore: la noia esistenziale, il disagio psicologico, il senso di vuoto familiare hanno sapore accademico. Ma è solo il principio: il racconto si distende, muta, sfrutta lo spunto di altre parole - i versi ingenui di una poesia adolescenziale - per assumere una nuova veste. Le parole si coagulano, ora: il loro permanente fiorire si addensa sull'amore e sulla vita. Alla fine, è un racconto di amore e di vita; di amore per la vita: e i personaggi si ritrovano strumenti di queste parole. Spoglio di quel compiacimento ricercato che dapprima aveva, approda a una secchezza di sentimenti e impressioni che non rinuncia alle emozioni. Perché l'abbraccio finale riesce a emozionare, in senso compiuto e non corrivamente consolatorio o romantico; e riaccende senza cedimenti alla facilità quella speranza che appariva - banalmente - assente nelle prime pagine. Speranza appunto non facile: speranza che vuol dire lotta: voglia di dare battaglia, a costo di restare feriti. E' il racconto più semplice, ma ha una compiuta dignità.

Nuvole senza cielo (ascoltando: Rachmaninoff: Liturgia di San Giovanni Crisostomo, per coro; op.31 - prima parte)
Amore, vita, speranza non facile a dispetto delle premesse: di nuovo; lo scenario, questa volta decisamente più valligiano, replica in prospettiva storica quello urbano e moderno. E' dalle sofferenze che nasce questa speranza venata di tanta asprezza, di una scabrosità che necessita di una volontà di ferro per essere raggiunta. Il romanticismo della storia concede nullo spazio alle romanticherie, concentrandosi sul bozzetto di due ragazzi che si incontrano e vengono sballottati dagli avvenimenti, storici e contingenti: epocali quelli, più spiccioli ma ugualmente decisivi - e cattivi - questi ultimi. L'adolescenza non è mai una passeggiata, ma alle volte esagera! E quando esagera, o spezza o tempra. Cosa e come prevalga dipende da tali e tante variabili che necessiterebbero di un Guerra e Pace per essere analizzate con agio. Ricaviamo e ci ricostruiamo i caratteri chiusi, umili, induriti e spietati (per sé stessi e per la loro vita) dei due giovani protagonisti dalle loro azioni; dal loro decidere, col cinismo di chi è cresciuto in fretta, in base alle circostanze avare che vivono. Ma proprio dalla loro chiusura, umiltà, durezza acquisita e spietatezza nascono - ci pare - quella volontà e quella pazienza che permettono il precipitare finale della speranza. Una speranza, nuovamente, che ha ben poco di romantico e ancor meno di consolatorio; e tutto invece di una solidità che ha origine dalla robustezza di ciò che è semplice e al tempo stesso radicato in una formidabile identità personale. Il granito è semplice pietra, ma per resistere al colpo di una mazza di ferro è più attrezzato di un elaborato e prezioso vetro di Murano. La vita, pare che tu dica, è così semplice una volta che si abbia la forza e la pazienza di lasciare che essa venga a capo di tutte le sue difficoltà, asprezze, rovesci. Averne la forza, però! E ancor più la pazienza.

Stella di Selvino (ascoltando: Bach: Oratorio di Natale op.BWV 248)
Variazione sul tema, digressione, scherzo tra il beffardo e l'agrodolce. Un piccolo bastardello (forse si capisce troppo da subito, la perfezione puzza sempre: ma è un difetto veniale; lui però resta antipatico da morire ;-)) anticipato e punito, ma che sa non prendersela, e in tal modo riscatta un po' il suo irritante atteggiarsi. Un'altra adolescente (all'ombra delle fanciulle in fiore, eh?), ma quanto più sbocciata in gloria, luminosa e raggiante; lontana da problematicità (ma di problemi agli altri una Sara dovrebbe essere bravina a darne, in compenso ;-)). Una storia, anche, di montagna, questa volta: genuinamente di montagna. Compresa la diffidenza istintiva per l'estraneo, l'urbanizzato; e compreso il rovesciamento dei ruoli che si vorrebbero prefissati, con lo smagato cittadino che in realtà resta con un palmo di naso; e usato. Non per caso è anche il racconto che, pur sbozzati appena, presenta più personaggi, con poche pennellate decise, anche, portati in buon rilievo. L'emergere dell'ambiente e dei luoghi richiede personaggi costruiti con nettezza, precisione, e concisione; le sfumature devono cedere il passo a contorni più esatti: le parole perdono definitivamente di importanza per sé e ne acquistano per essi, servizievoli fornendo corpo agli abitanti dei luoghi e ai luoghi stessi. E' una storia di quarzi, indubbiamente: cristalli duri, come i luoghi e i loro abitanti. Ma anche iridescenti, come il risvegliarsi alla vita di una ragazzina impertinente e, si suppone, ben presto impenitente. E' una storia dove la natura è sul punto di prendere il sopravvento, e dove alla fine vien fuori come una protagonista muta ma ben presente, che osserva i personaggi e si lascia osservare dal lettore.

Il rovescio delle cose (ascoltando: Bach: Oratorio di Natale op.BWV 248)
Okay, qui mi prendi sui sentimenti. Vent'anni fa avrei riconosciuto solo due tizi come più competenti di me in materia di tennis: Clerici e Tommasi; poi il tennis dei racchettoni, dei supermuscolari e di strane tv a pagamento mi hanno disamorato: rivoglio anche io la Jack Kramer Pro Staff. Ma il tennis mi è rimasto nel cervello. E il racconto me l'ha riportato in circolo; è ovvio che non è SUL tennis, ma è tuttavia CON il tennis, e i meccanismi della partita con Robbiati sono quei meccanismi che mi hanno fatto amare il tennis. Mi sembri abbastanza ferrato sulla memoria, quindi penso che tu capisca quello che puoi avermi rimesso in circolo come dicevo :-). Qui il lavoro si sposta ancora di più sui personaggi; o meglio sul personaggio, perché tutte le risorse si addensano sul nostro tennista di ritorno. Un ritratto che stavolta non è netto, ma neppure sfumato: è frastagliato. Contorto. Aggrovigliato. Mica è uno facile Daniel il tennista di ritorno. Non si fa grandi sconti, ma certo si fa parecchi problemi. Eppure non c'è nulla, in lui, dell'intellettuale pippaiolo. Il fatto è che intellettuale lo è; senza aggiunte. Nel senso di chi non abdica al proprio intelletto, di chi non sceglie mai la via più agevole, soprattutto per arrivare a guardarsi dentro e a soddisfarsi; ma, almeno alla lunga, non fa di questo un ripiegarsi sterile sulle proprie lamentazioni. Ci vuole tempo perché l'intelligenza arrivi a elaborare il senso profondo e consapevole della speranza, ma ci arriva immancabilmente: e senza non ci si arriva. E ci vogliono anni e una certa età per arrivarci. Scolorire di cicatrici, e comprensione di cosa le abbia provocate. La volontà di rischiare di procurarsene di nuove. La speranza, insomma, ancora una volta. Ma, mi ripeto, senza atteggiamenti consolatorii: va strappata all'esistenza, non cresce sugli alberi, non si ottiene per tocco di bacchetta magica. Con Daniel, per uscire dalla sfera dell'allusivo e arrivare a conoscerlo appieno aspetto il romanzo. E poi Robbiati: perché è bello il pensiero di quell'acqua gelata che sferza a tradimento quello stronzo. E gli altri personaggi a corona. Sinceramente, uno come Mat mi sta istintivamente sull'anima; ma poi mi sovviene che un amico Mat-to ce l'ho anche io; matto in modo diverso, ma sempre matto; e forse tutti - tutti noi che speriamo di essere sani di mente - un amico matto ce lo abbiamo. Ce lo dobbiamo avere per mantenere il contatto con uno spirito più libero del nostro. E gli vogliamo bene perché alla fine sono molto più sani loro di noi. Resta Paola, enigmatica e informe rispetto agli altri personaggi. Ma è giusto: stavolta è una storia di uomini, e anche le donne importanti non sono che accessori.

Vecchio al monte (ascoltando: Vivaldi: L'Estro Armonico op.3)
Il racconto più bello. Non per semplice apprezzamento estetico, o per sensazioni o impressioni; né per una simpatia che possa ispirare il protagonista, anzi. Intanto perché Cesco è il personaggio più riuscito che presenti; quello meglio elaborato e strutturato, analizzato con una precisione che va oltre i suggerimenti che dissemini sulla sua personalità: per l'aderenza completa dell'uomo al suo ambiente; e per quelle valli e montagne che qui vengono in rilievo materiale come non prima: attraverso gli occhi, la memoria e il pensiero del loro osservatore. Evocate negli altri racconti, qui ci sono, si materializzano nel loro splendore: un po' come esserci sopra e dentro dopo averle ammirate in lontananza. Soprattutto, però, in questo racconto c'è quella qualità della buona letteratura che riesce a farti scindere la lettura con la testa da quella con il cuore, per poi amalgamarle. Cesco non è esattamente il modello di essere umano che ami alla follia :-). Questo al di là del fatto che io concordi pienamente con le considerazioni introduttive che fai al racconto; non parlo di Cesco come modello di vecchio, e tanto meno dell'importanza cardinale, che stiamo perdendo, della vecchiezza: non avrei sopportato neppure il Cesco ventenne. Ma il racconto ha saputo scavalcare la ripulsa istintiva di cuore; ha saputo (ri)mettere in moto il cervello: fino a farlo innamorare della storia e del personaggio. E attraverso il personaggio forse anche dell'uomo. Se Cesco ha un modello reale, forse me lo avrebbe fatto quanto meno digerire. Attraverso quali meccanismi la mia lettura istintiva abbia ceduto il passo è presto detto: sotto la scorza e dietro la maschera di Cesco ci sono un'intelligenza intensa e un'umanità calorosa, che in questo caso solo la descrizione letteraria può raggiungere e disseppellire e riportare alla luce: nella vita reale e quotidiana sarebbe molto più difficile, e anche improbabile. E c'è un'ironia, nel vecchio, che appartiene agli animi elevati. La semplicità è apparenza ingannevole, spesso; e solo in questo senso si potrebbe definire semplice il vecchio Cesco. E, certo, se abbraccerei con emozione il vecchio scalatore del racconto, è più probabile che vorrei sbattere la testa al muro a un Cesco reale. Questo fa, un buon racconto: fa riflettere. Ci fa elaborare i nostri sentimenti, sviscerare gli schemi di pensiero, rapportare la sua finzione narrativa con la nostra vita. E infine ci diverte.