sabato 12 giugno 2010

Il pranzo della festa. Una storia dell'alimentazione in undici banchetti - di Martin Jones




Il pranzo della festa è un titolo persino frivolo; e il sottotitolo – Una storia dell’alimentazione in undici banchetti – pare quasi sottolineare questa leggerezza. Come spesso succede, il titolo originale è più sobrio e centrato: Feast. Why humans share food. L’argomento è arduo e complesso. Non meno però, di quanto sia affascinante e appagante una volta che ci si immerge nelle pagine del libro.

Martin Jones è un archeologo inglese, si occupa in particolare dei reperti legati al consumo e alla produzione del cibo e agli effetti dell’alimentazione sull’uomo e la sua organizzazione sociale.

Per gran parte di noi occidentali la produzione del cibo è un’attività che appare ormai remota, e la sua consumazione è un rito quotidiano che diamo per scontato. Tendiamo quindi a sottovalutare il fatto molto concreto che l’alimentazione è la base da cui non può prescindere la nostra esistenza, individuale e di specie. Neppure siamo (più) coscienti del fatto che il procacciamento del cibo è stato l’assillo più gravoso lungo quasi tutto lo snodarsi della storia del nostro genere e di quelli dai quali ci siamo evoluti.

Il libro di Jones fa qualcosa di più che semplicemente ricordarci questi aspetti che nel nostro occidentale, noncurante ingrassarci e ingozzarci tralasciamo spesso e volentieri.

Jones esegue una profonda e accurata analisi di tutti i dati in nostro possesso: archeologici, climatologici, biologici. Principiando dalla ricostruzione minuziosa delle dinamiche pre-umane di accesso e consumazione del cibo presso una comunità di scimpanzé, e proseguendo poi con l’uomo a partire dalla ricostruzione archeologica di un sito di 500.000 anni fa dove un gruppo di Homo heidelbergensis macellò e in parte consumò un cavallo selvatico, approderà alla nostra civiltà del fast-food. Undici tappe, archeologiche e non, di un percorso attraverso il quale l’autore ci conduce, dipanando una storia che ha punti di cesure e fili che al contrario paiono e sono ininterrotti. E’ una considerazione banale, ma ancora una volta è qualcosa che tendiamo a dimenticare con eccessiva facilità: il cibo – la sua disponibilità, il procacciamento, la sua consumazione – ha cambiato l’uomo durante il corso di tutta la sua esistenza come specie. Cambiato sul piano biologico, sociale, psicologico. A sua volta l’uomo a fini alimentari ha continuamente, incessantemente mutato l’ambiente naturale dove reperisce le sue fonti di cibo e i metodi impiegati per procurarselo. Ancora oggi la tecnologia più determinante – e la cesura determinante – introdotta dall’uomo è quella agricola, che ha completamente rivoluzionato i comportamenti della nostra specie: sotto il profilo economico, sociale, psicologico, religioso, fisiologico. E’ con l’agricoltura che nascono l’accumulazione di capitale e la gerarchia sociale, quindi l’interconnessa società globale nella quale viviamo. E dunque anche la guerra come paradigma del rapporto tra nazioni per il controllo delle fonti di approvvigionamento. Nessuna tecnologia, infine, ha mutato maggiormente e più in profondità il volto fisico del pianeta. Che sia stata un’innovazione felice è pertanto tutt’altro discorso.

Se l’uomo ha plasmato il suo cibo attraverso l’agricoltura, a sua volta QUEL cibo ha plasmato l’uomo. La sua disponibilità, conservabilità, riproducibilità hanno determinato il successo riproduttivo della nostra specie. Su QUEL cibo, che essenzialmente è il cereale, l’uomo ha ri-edificato la sua società e le sue credenze. A loro volta, questi memi potentissimi hanno condizionato l’uomo, fino a mimare nella nostra psiche una supposta naturalità dell’agricoltura e delle costruzioni psicosociali che ha indotto. Fino a condizionare la scelta naturale: ad esempio è sicuramente materia di riflessione il perché la nostra civiltà occidentale abbia finito per adottare come alimento base il frumento (anzi, alcune sue varietà) e non un cereale sotto quasi ogni aspetto superiore quale è l’orzo. In Asia si può proporre la stessa riflessione scambiando il frumento con il riso. L’agricoltura e le sue sovrastrutture ideali e sociali non hanno solo inciso in modo negativo sulla fisiologia umana, ma hanno introdotto un certo conservatorismo culturale nella specie, rallentandone le capacità di risposta a eventi esterni.

Sebbene il rigore tecnico con il quale Jones procede renda a volte di non immediata comprensione e fruizione la materia trattata, tuttavia quello stesso rigore, e il puntiglio dello scienziato, sviscerano l’argomento in modo così completo e profondo da permettere al lettore disposto a impegnarsi di giungere a una piena cognizione di un soggetto così complesso e dalle infinite ramificazioni nelle più varie discipline. Da un punto di vista squisitamente letterario l’ironia appena accennata di cui Jones sa far uso agevola questo percorso.

Questo rigore e questo puntiglio sono non meno importanti per illustrare il metodo di lavoro applicato, e più in generale il procedere di un’indagine scientifica, il formarsi delle ipotesi, la ricerca delle conferme, il lavoro di analisi ed esegesi delle fonti.

Il pranzo della festa non è soltanto una disamina chiara, completa e ricchissima di riflessioni collaterali sull’aspetto più centrale della storia umana allo stato delle conoscenze attuali; non è meno una narrazione potente di questa storia. Dal complesso dei dati Jones trae una materia che è viva. I siti archeologici presso i quali trasporta il lettore prendono letteralmente vita, mostrandoci l’umanità che li abitava e che lottava senza posa per sopravvivere, poi per espandersi e moltiplicarsi.

Non è frequente imbattersi in libri che riescono a fare tutto ciò. A permetterci di conoscere noi stessi, di capire come e perché siamo giunti dove siamo ora. E che lo facciano affascinando. Libri che danno senso all’attività della lettura.  

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