mercoledì 26 maggio 2010

I Preti di Stargorod - Nikolaj Semënovič Leskov


Leskov non è certo il più reputato dei grandi narratori russi del XIX secolo. A questo concorrono probabilmente due aspetti: il suo essere soprattutto un novellista d’eccezione in una terra e un tempo di fluviali romanzieri e poeti ardenti, e un’apparente maggior leggerezza dei temi.

I Preti di Stargorod – Cronaca (il cui titolo originale suonerebbe un ancor più asciutto “Preti”, sempre con quel sottotitolo: “cronaca”) è forse il suo romanzo più noto, e mi pare in grado di rendere giustizia al suo autore. Per un verso esso evidenzia i limiti – se di limiti necessariamente si tratta – di Leskov: come romanzo si mostra  infatti eterogeneo, le sue parti non appaiono equilibrate e all’apparenza manca di coesione narrativa: quel sottotitolo Cronaca sembra descriverlo alla perfezione, più cronaca giornalistica che (re)invenzione letteraria, analisi della realtà. Ma tra le pieghe di questi limiti – o meglio dandosi cura di leggere con attenzione il romanzo – se ne scorge il superamento per altre vie.

Il romanzo appare disarmonico ed eterogeneo perché indubbiamente lo è, sin dalla sua genesi: le sue parti vennero infatti disparatamente pubblicate nel corso di un decennio circa. Ma proprio la sua natura cronachistica permette a Leskov di volgere in pregio questo difetto: I Preti di Stargorod finisce con l’essere una somma di racconti, e di racconti nei racconti, terreno sul quale l’autore si muove con grande sicurezza grazie all’abilità di sintesi che mostra nello schizzare i caratteri, nel tratteggiare in economia una psicologia completa, nel vigore emozionale che sa imprimere ai brevi scorci lirici che intessono la narrazione: verso la fine del romanzo è magistrale la descrizione della tempesta che coglie nella campagna padre Tuberozov, dello smarrimento dell’arciprete di fronte alla grandiosità della natura, e vi si avverte in modo sottilissimo ma pieno la prefigurazione della morte che coglierà l’anziano religioso di lì a non molto.

Ma una somma di racconti non fa ancora un romanzo. Un primo elemento unitario, labile, si può rintracciare nello spirito ambiguo che anima tutto il romanzo, sospeso tra un senso incombente di morte e l’erompere di una vitalità molto russa e molto prepotente; ambiguità che si risolve nella ciclicità naturale della vita. Per il clero di Stargorod era giunta un’epoca di completo rinnovamento: così Leskov conclude il romanzo. Una cronaca ha termine, se mai dovrebbe iniziarne una nuova. A una stagione ne succede un’altra.   
La spartana edizione BUR del libro (1962)

Un secondo elemento unitario, neppure esso decisivo, sono le figure stesse dei preti della città di Stargorod. Quanto meno dei due che nell’economia di questo romanzo dispersivo e anarchico assumono ruoli centrali, prossimi a quelli di veri e propri protagonisti (e comunque si tratta dei soli personaggi tali da configurarsi come protagonisti): l’arciprete Tuberozov e il diacono Achilla.

Sebbene la prima parte del romanzo - che da sola ne occupa quasi un terzo - e la seconda siano corali e presentino una galleria umana straordinaria per varietà e finezza di rappresentazione, anche se spesso il bozzetto prevale sul grande ritratto, già in esse il diacono e l’arciprete assumono un rilievo particolare, e l’autore si sofferma sull’esteriorità dei loro gesti e gesta, se non ancora sulla loro anima e pensieri profondi.

Nella prima parte, la lunga ricognizione del diario dell’arciprete vuole mostrarci uno spirito ardente e puro, ma resta ancora superficiale: Leskov ci dice troppo, e come spesso accade quando l’autore prende il posto del suo personaggio finisce per dirci troppo poco: per raccontarci in luogo di mostrarci. E’ sicuramente la sequenza più debole dell’opera. Sarà nella quarta parte del romanzo, quando egli lascerà a Tuberozov tutto il campo, che la grande anima dell’arciprete ci si rivelerà nelle sue azioni e pensieri, non più raccontati ma lasciati alla nostra osservazione di lettori. Sarà qui che la grande complessità della personalità dell’arciprete ci svelerà la sua celata semplicità; che la sua asprezza lascerà vedere in controluce l’onestà disposta a qualunque sacrificio; che l’ottusità del pope, grattatane la superficie farà affiorare tutto l’amore del vero – rarissimo – cristiano. In ultima analisi è qui che la semplicità di padre Tuberozov torna a mostrarci tutta la complessità della sua figura letteraria e di uno spirito sofferto incapace di scendere a compromessi, e che sempre ha anteposto il rispetto della genuina legge (divina) al rispetto per le gerarchie (terrene). Si può non essere d’accordo con l’arciprete ma non si può non ammirarlo.      

Anche Achilla, il gigantesco, esuberante, eccessivo diacono non emerge ancora del tutto nelle prime due parti del romanzo. Le sue (dis)avventure, le vere e proprie monellerie, il vicendevole farsi la forca con i nemici “intellettuali” anticlericali come il professore Varnava Prepotenski (una spettacolare figura di idiota totale) – tutto resta ancora nella dimensione dell’elemento di colore: Achilla incarna, in modo schematico e anche stereotipato, l’elemento popolaresco e sanguigno. Sarà nella quinta e conclusiva sezione del romanzo che Achilla assumerà rilievo definitivo. Il particolare rapporto di affetto che univa il diacono e l’arciprete è chiaro sin dall’inizio: per l’anziano padre Savieli Tuberozov, il diacono è quel figlio che l’amata moglie Natalia non ha potuto dargli, e il suo amore per lui è quello per un figlio scapestrato, sempliciotto, turbolento, ma al quale si riconosce una bontà incondizionata. Così come l’amore di Achilla per l’arciprete mescola quello del figlio per il padre, del semplice per l’astro del proprio sistema di riferimento, del cane per il suo padrone. Quando padre Savieli morirà, un Achilla schiantato dal dolore assumerà su di sé il compito di preservarne la memoria, in corsa contro la propria morte, che il colosso presentiva. Ad Achilla erano venute meno le sue sicurezze: nella propria forza fisica, quando il furfante Termosiesov lo aveva colpito a tradimento; nell’arciprete, sottrattogli dalla morte e ancor prima dall’interdetto arcivescovile; forse nella stessa religione, che prima punisce ingiustamente Tuberozov e poi dopo la sua morte lo sostituisce come niente fosse con un nuovo arciprete. Nella vita stessa, in ultima analisi, che con il suo continuare quieto intorno alla sua disperazione gli viene a frantumare la griglia di certezze all’interno delle quali il diacono aveva identificato la propria esistenza.

Tuttavia pure le figure dei due religiosi, dapprima in parte diminuite dal coro degli altri personaggi e poi libere di giganteggiare, restano elementi troppo poco coesi per “fare romanzo”. Basterebbe l’importanza che assumono altre due figure: Termosiesov, mattatore assoluto della terza sezione dell’opera e Nikolaj Afanasievic, la cui presenza emerge qui e là nell’arco di tutta l’opera.

La terza parte de I Preti di Stargorod fa quasi storia a sé, sia per il vigore del personaggio di Termosiesov che perché egli e il suo superiore Bornovolokov sono presenti solo qui, e al massimo citati di sfuggita in seguito. Anche se è proprio Termosiesov ad assumere il ruolo di frangitore dell’equilibrio (seppure instabile) di Stargorod, innescando con i suoi inganni, truffe e crimini vari gli eventi che infine risulteranno nella morte di padre Savieli e Achilla.

Con Termosiesov Leskov ci consegna una formidabile figura di ribaldo. Nella dimensione di un romanzo, sarebbe stato un personaggio degno di figurare accanto a un Uriah Heep. Qui diventa il protagonista assoluto di un racconto nel racconto; schizzato in poche ed efficacissime battute affiora il ritratto di un vero amorale. La malvagità di Termosiesov è istintiva, ferina, noncurante. Anche quando egli studia e si applica nell’esecuzione di un’azione atta a recare un danno gratuito a qualcuno, il primo movente che emerge è che egli agisce perché può farlo. Perché forse è divertente. E perché ne ricava un vantaggio, certo. Ma la netta impressione è che soprattutto si diverta: a ingannare donnette credule e vanitose; a tenere in pugno individui fragili e abietti come il principe suo superiore; a far del male a persone migliori di lui come padre Savieli; a sfidare il buon diacono perché potrà sempre sgambettarlo confidando nell’ingenuità di questi. Quel che perde in profondità nel ritrarre questo suo avventuriero, Leskov lo guadagna in vigore e colore del racconto. Nel gioco verbale.

Nikolai Afanasievic, il piccolo uomo, il nano servo della gleba della boiarda Plodomasova è invece tutt’altro personaggio. Attraverso di lui Leskov pare quasi voler fare un riassunto di quello che egli ritiene sia il carattere del suo popolo: mite, semplice, rispettoso di chi considera superiore a sé; ma anche determinatissimo, fedele all’amicizia fino alla morte, saggio. Il santino è però rischiarato dalla grande umanità che Leskov vi trasfonde. La tessitura degli eventi che lo coinvolgono, le sue parole e quelle degli altri personaggi su di lui sono sempre così sincere e genuine che il piccolo Nikolai perde la falsità che una figura del genere potrebbe finire con l’assumere e si riveste di un lirismo dolce e soffuso che lo rende uno dei personaggi indimenticabili di questo romanzo.

Se tutti gli altri uomini e donne che ruotano attorno alla vita di Stargorod sono meno rilevanti e decisivi, compreso il terzo dei preti, quel mite e incolore padre Zacharia Benefaktov cui l’autore concede però l’ultima parola facendolo morire dopo i confratelli, a suggello delle cronache di Stargorod; è non meno vero che a tutti Leskov concede lo spazio di una breve illuminazione, uno squarcio narrativo durante il quale in poche righe ci presenta un uomo o una donna, e soprattutto un’anima. Da quel Varnava Prepotenski che si crede un moderno intellettuale ed è un povero cretino, alla sua in tutto degna amica Biziukina; dalla tragica figura di Danilka, tra lo scemo del villaggio e lo spostato moderno, e che sarà causa indiretta della morte di Achilla, al maresciallo della nobiltà Tuganov, che sotto l’apparente cinismo e disinteresse per tutto rivela una grande generosità; dal ritratto, a un tempo spietato e umanissimo che da della nobiltà terriera con la figura di Marfa Plodomasova, che ha grande affetto per Nikolai ma lo umilia senza neppure accorgersene, alla moglie del direttore dell’ufficio postale di Stargorod, tutta compresa nelle sue piccinerie di borghesuccia.

E’ difficile raccapezzarsi in questa congerie di umanità, in questa eterogenea umanità. Difficile rintracciare un filo comune che conduca a un’identità del romanzo, che possa rappresentare la filigrana de I Preti di Stargorod. Eppure è proprio questa pluralità di voci e di quadri, questa varietà a rappresentare in qualche modo un elemento unificante, di coesione. Queste sono davvero le cronache di Stargorod, questa città immaginaria epitome di tutta la Russia. E sono le cronache del suo clero. Così umano, così lontano dal rappresentare un modello, così impermeabile alla realtà che si fa strada nel mito di una Russia immobile; ma anche così dolce, così buono, così amorevole. Così lontano dalla chiesa burocratica. Anche padre Savieli, che in qualche modo dovrebbe rappresentare una figura di intellettuale, acquista vero corpo quando ne vediamo emergere il lato in un certo modo più infantile: quella caparbietà pura, incontaminata, che lo porta di puro impeto a rifiutare il compromesso con l’autorità, a ricercare l’integrità assoluta senza deflettere dai propri convincimenti. E il cruccio che porterà con sé nella tomba per non essere in alcun modo riuscito a ricomporre, nel suo piccolo distretto, lo scisma con i “Vecchi Credenti”, scisma vecchio di due secoli con quella parte di popolazione che restava attaccata a una religiosità medievale, al culto delle icone.

Cronache, e dunque il semplice racconto della vita. E del resto è esattamente quanto Leskov fa: ci racconta delle esistenze come esse si svolgono. Ci fa conoscere i protagonisti di queste esistenze. E ce li fa amare. E non potrebbe riuscirci senza lo spirito arguto che vena tutta l’opera, stemperandone anche i frangenti più drammatici.

Un umorismo rotondo, saporito, schietto. Talora macabro. Anzi specialmente macabro. La stupidità di Varnava ci si rivela nella assurda sottotrama dello scheletro dell’annegato. A “fini scientifici”, Varnava ottiene dal sindaco e dal medico locale di poter disporre del cadavere di un annegato; ne squaglia la carne nella caldaia per poter avere le ossa pulite in modo da studiarne la struttura scheletrica. Ciò che segue, con la disputa del professore con l’anziana e piissima madre e il manesco diacono è da antologia della risata. Sarebbe tutto molto serio, se il “martire della scienza” avesse un solo grammo di cervello invece di essere un tacchino vestito a festa. Ancora più macabro è il tono da commedia nera sul quale si chiude il romanzo, con quell’ultimo episodio del “diavolo” che terrorizza la cittadinanza di Stargorod. Il diavolo altri non è che un Danilka ridotto alla fame dall’esilio comminatogli, che si traveste con pelli di pecora, corna di vacca e uncini da lavoro per rapinare gli sprovveduti. Nonostante le apparenze, quello che meno di tutti crederà alla pagliacciata è proprio Achilla, che catturerà il “diavolo”, ma per farlo prenderà una tale infreddatura da andare all’altro mondo.

In mezzo si sprecano gli episodi dove questo spirito emerge, e nella storia di Marfa Plodomasova che vorrebbe far sposare Nikolai con una nana finlandese si arriva tranquillamente alla crudeltà. Non goliardico, dunque, ma sapiente mi viene da dire. C’è una profonda saggezza nell’umorismo leskoviano, nell’understatement con il quale contrappunta di leggerezza la vita dei suoi preti, uomini e donne di Stargorod. Leggerezza a volte cattiva, come è la vita.

Può darsi che non sia un romanzo perfetto I Preti di Stargorod; ma la verve verbale di Leskov, l’impeto sentimentale che mette nelle sue pagine e personaggi, la trama così fitta e colorata delle vite che racconta – tutto questo converge a creare un’opera che supera i suoi difetti e va oltre i suoi pregi, per presentarci qualcosa che è ben di più di uno spaccato di Russia del XIX secolo: uno spaccato di umanità attraverso il tempo.

Ecco, è questo che fa un classico.

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