mercoledì 19 maggio 2010

Il cane Iodok - Aleksey Meshkov


S’ha un bel girare e rigirare tra le mani il libro una volta terminatane la lettura; il sopracciglio del lettore continuerà a inarcarsi nella perplessità di cosa abbia letto. Eppure, per molti versi, Il Cane Iodok è un esempio di chiarezza.

Con eleganza esso presenta infatti la metafora esplicita della Russia dei nostri giorni, della sua società permeata di rassegnazione, rinuncia, vigliaccheria, complicità con un potere che estende inavvertito i suoi tentacoli mettendo in scena la finzione della democrazia e la realtà di un’autocrazia tanto morbida nella sua ufficialità quanto brutale nell’autodifesa e nell’offesa. Se la metafora è esplicita e dichiarata, gli strumenti narrativi e l’architettura descrittiva del breve romanzo si sottraggono a ogni facile (e anche difficile) catalogazione e analisi.

Io, Iodok, l’uomo-cane, sono l’apostata, il rinnegato dal branco. Il protagonista e io narrante ripete di continuo questo mantra che ne suggella l’identità e rappresenta il programma estetico del romanzo. Chi sia stato Iodok non ci è dato saperlo fino in fondo, come del resto è per molto altro in questo romanzo.. Ci viene detto che ha avuto un’infanzia e prima giovinezza siberiane, non infelici. Tutto ciò che sappiamo è che per salvarsi dalla caccia spietata degli inviati dello Zoo - il misterioso ente/potere che riassume in sé la deriva autoritaria, il potere criminale e la finzione della democrazia – egli entra nella pelle di un cane. Letteralmente. Trovato morente al bordo di una strada il cane Zenta, dopo aver assistito impotente alla morte dell’animale lo scuoierà e ne indosserà la pelliccia. Siamo nel pieno – e più bizzarro – territorio del surreale, che tra le differenze anche notevoli, pone un punto di contatto chiaro con il Cuore di cane di Bulgakov.

Il cane Iodok è l’apostata al punto da spingere la sua apostasia al piano biologico: all’interno della folta pelliccia del cane lupo l’uomo muterà, acquisendo i sensi del cane, molti dei suoi organi, conservando mutati molti dei propri. L’uomo-cane è tale in senso proprio, assume le abitudini, le posture del suo ospite. Si nutre con crescente abilità delle piccole prede che una natura da tempo addomesticata dall’uomo riesce ancora a fornire.

Sarà tutto inutile, e la paura indotta dalla pressione di una caccia che egli giustamente sente condotta con spietatezza lo indurrà a un passo ulteriore sulla via dell’identificazione con la natura canina: trovarsi un padrone. Si rifugia, Iodok, nel cuore stesso del sistema dello Zoo: la clinica veterinaria del professor Lyudov, sede di nebulosi e mai chiariti esperimenti, forse di condizionamento, forse di wellsiani esperimenti chirurgici. Alla lunga, però, si rivelerà inutile tutto: in un gioco in cui i confini tra la manipolazione della realtà (e del lettore stesso) e la sua surreale rappresentazione, l’intera fuga di Iodok potrebbe essere stato null’altro che un esercizio di quel potere al quale cercava di sfuggire. Il potere dello Zoo, radunate false prove contro l’uomo-cane lo giustizierà sommariamente. Sono esseri che appaiono a Iodok con fattezze di cane e non umane coloro che lo uccideranno. Forse è il riconoscimento finale della bestialità di un potere che, come Iodok aveva asserito, ha sostituito la Legge, ammantandosi del compito di garantirne l’esecuzione, così svuotandola dall’interno. O forse è il riconoscimento che nessuna fuga – come infatti succede – neppure quella dell’apostasia individuale, della fuoriuscita e del rinnegamento del branco (umano) è possibile, perché il Potere riassume in sé tutto e il contrario di tutto e la lotta per la propria libertà guadagna solo la morte perché non esistono spazi dove a libertà è possibile.

Benché il filtro surreale della stranezza impregni ogni frase del romanzo, e la stessa analisi politica e sociale della realtà sia resa attraverso questa lente deformante (e che però accentua l’affilatezza dell’analisi stessa), la scrittura evocativa dell’autore, sinuosa e sensuale come è, rende la lettura appassionante. Iodok è un narratore d’eccezione, superbo nelle descrizioni urbane e paesaggistiche, nel far vivere le proprie sensazioni, in uno sfoggio di “realismo canino” che accentua l’effetto di straordinario disorientamento dato da tutto l’impianto surreale del romanzo. E’ ingenuo nella sua analisi psicologica di alcuni dei personaggi, in ossequio a quel “realismo canino” viene da dire. Ma soprattutto è perfetto nel trasmettere per intero l’ansia paranoica della sua paura, l’intensità e la crudeltà della caccia alla quale lo Zoo lo sottopone. La paranoia, soprattutto: al punto che a volte si è tentati di pensare che ogni cosa non sia che il delirio di un folle.

Quella di Iodok non è una rivolta, è una dichiarazione filosofica ed etica di estraneità. Ma come lo Zoo non può tollerare – e schiaccia – le deboli forme di resistenza organizzata, così esso ancor meno può lasciar sussistere la radicale negazione incarnata da Iodok. Ciò che all’apparenza manca nel romanzo è appunto l’esistenza, la “chiamata alle armi” di una vera società resistenziale. Meshkov vi accenna solo di sfuggita. La scelta individuale e individualista di Iodok, fino al solipsismo, sembra una strada elitaria e folle, condannata di per sé al fallimento; ma uguale fallimento è destinato all’esistenza dei branchi di cani randagi sui quali si abbatte il pugno dello Zoo che li assorbirà entro il proprio ordine.

In realtà la scelta di Iodok è davvero la forma più pericolosa di resistenza al potere, rappresentando la forma finale di autonomia di pensiero, fino alla rinuncia di ogni vestigia del proprio passato. L’inevitabilità dello sconfitta dell’uomo-cane, troppo solo per poter sottrarsi alla pervasività del Potere conferisce a tutta la storia una luce di cupezza e disperazione: Io, Iodok, il nemico dell’ordine zoologico, dovevo morire nel silenzio,condannato da accuse false e infamanti. All’interno della pelle dell’animale simbolo della fedeltà all’uomo, Iodok morirà da uomo libero e salverà la propria anima, ma morirà. Poche pagine prima Meshkov aveva escluso con nettezza anche la possibilità di evasione nell’amore. Iodok concretizza il proprio amore per Vera, la segretaria del suo padrone, il professor Lyudov, ma in nessun momento della loro notte d’amore perde la lucidità e con essa la consapevolezza che il suo destino è segnato: la solitudine può essere interrotta episodicamente ma non elusa.

Le forme esteriori del thriller si adattano come un guanto alla materia dell’opera, agevolando il lettore nel cogliere ogni dettaglio del crescendo di terrore e paranoia che accompagna la parabola del cane Iodok, e permettendo di respirarne, di viverne il quadro d’insieme nel realizzarsi della minaccia dello Zoo. Né distopia né antiutopia, Il cane Iodok è una lettura esatta della realtà effettuata con gli strumenti del suo sovvertimento e della ricomposizione secondo coordinate che nella loro estraneità e bizzarria finiscono per apparirci ancor più precise nel cogliere quella stessa realtà.

Nel risvolto di copertina l’autore è detto di padre russo e madre italiana, e da alcuni anni trasferitosi nel nostro paese. In rete tutto quel che si trova in più è che il suo dovrebbe essere un nom de plume.  

 

3 commenti:

  1. hai duplicato l'articolo.
    oppure e' una scelta surreale per stare a ruota a Aleksey Meshkov?

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  2. Ahahah, sei più spiritoso del tuo solito (ci vuole poco ;-)).

    V.

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  3. http://www.nazioneindiana.com/tag/aleksej-meshkov/

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