giovedì 17 marzo 2011

Sull’amore sulla morte – di Patrick Süskind

Un libro è come un’avventura amorosa, non è mai dato di sapere quando e se avrà inizio – ovvero quando e se mai lo si leggerà; e neppure se mai il governo del caso porterà i nostri occhi a scorrerne le pagine. A volte lo abbiamo sotto gli occhi per anni e non ce ne accorgiamo, poi l’impulso di un attimo cambia tutto; così come ascoltare una frase o incrociare uno sguardo o sentire un profumo o l’esplodere di una risata, improvvisamente ci fa osservare una donna con occhi nuovi e consapevoli (o un uomo: metteteci la vostra preferenza che io mi tengo la mia ;-)).

Capita così di passare distrattamente per mesi o per anni, in libreria, con lo sguardo sopra un titolo e poi ieri di sceglierlo e subito leggerlo di slancio. Perché non ce n’è, con i libri si fa l’amore, altrimenti non si è lettori, ma solo utenti della lettura; ma allora lasciate perdere, trovate qualcosa d’altro da fare, il mondo è vasto, e se per voi un libro è soltanto un passatempo non avete capito un granché.

Gli argomenti trattati da Süskind in questo libretto sono e probabilmente saranno sempre quelli più ricorrenti nella letteratura, nell’arte e anche nella società: in quanto animali la nostra morte è inevitabile, così come la necessità imperiosa di trasmettere la nostra eredità ci spinge l’uno sull’altra; in quanto animali dotati della capacità di riflettere su noi stessi, è inevitabile che i due intrecciati poli della nostra animalità ci inducano a riflettere più di ogni altro. E a inventare, ricamare fantasie sovreccitate. Ecco, forse il limite di questa riflessione di Süskind come di quelle fantasie sovreccitate dei poeti, il limite della visione degli artisti, è di voler confinare l’amore (e la morte) in una dimensione artistica, dimentica della nostra dimensione di natura. Ma alla fine, è proprio questo a banalizzare la riflessione artistica sull’amore (e la morte), anche quando è artisticamente suprema. Perfettamente comprensibile in Goethe e ancor più in Kleist che scrivono duecento anni fa e che Süskind analizza, per altro con mirabile sintesi, ma non in Süskind stesso che scrive nel 2005 e ripropone, sebbene ancora con una maestria che lascia ammirati, riflessioni che potevano essere giustificate ancora nell’età romantica (e forse ancora oggi nelle fantasie più sovreccitate).

Scrive Süskind nelle pagine iniziali del saggetto:
Qualcosa di misterioso sembra connesso con l’amore, qualcosa che non si può conoscere con esattezza e si può spiegare solo parzialmente. Lo stesso si può dire anche con il big bang o quando ci si chiede come sarà il tempo fra due settimane. E tuttavia la teoria del big bang e le previsioni del tempo stimolano i poeti e il loro pubblico molto meno di tutto quello che ha a che fare con l’amore. Quindi nell’amore deve esserci qualcosa più del misterioso.

E più avanti, parlando di uno dei protagonisti del Convivio di Platone, il medico Erissimaco:
Oggi uno come lui probabilmente definirebbe l’amore uno degli innumerevoli fenomeni determinati dagli enzimi, dagli ormoni o dagli amminoacidi. A noi sembra banale. Poco edificante. E inoltre spiega poco. Perché definire non significa certo generalizzare, bensì al contrario circoscrivere e delimitare dal generale.

Infine:
Dalla canzonetta al Fidelio e al Flauto Magico, dal romanzetto all’Anfitrione di Kleist, tutto ciò che è scritto e cantato in queste opere cerca di esprimere la convinzione che l’amore è qualcosa di sublime, di divino, di liberatore, e la terminologia usata per cantarlo e descriverlo è rimasta religiosa fino ai nostri giorni.

Ecco. Sia chiaro: la poesia, l’arte hanno il diritto e forse il dovere di appellarsi al mistero, di sbrigliare la fantasia senza curarsi in alcun modo della nostra realtà di viventi; hanno il diritto di rifiutare la realtà per intessere il sogno di quella fantasia sovreccitata di individui che a tentoni provano a spiegarsi qualcosa che appare loro inspiegabile. E appunto sublime perché inspiegabile (e perché tanto stravolgente sui sensi). Come sublimi possono essere le opere che se ne traggono. Se a farlo sono Goethe o Kleist, quando invece ci toccano Baricco o Susanna Tamaro afferrare una roncola e nutrire propositi sanguinari è un impulso salutare ;-).

Ma Süskind nel 2005, nel proporre una riflessione, ha il diritto di proporcela – lui sì, in fondo - così banale, forse incompleta? Forse volutamente incompleta, perché cosa ci sia oltre il misterioso è individuato, ma l’autore lo tralascia con (sospetta) noncuranza. Che il poeta voli, e ci trasporti con lui lontano da noi stessi e dalla terra cui siamo ancorati va bene. E’ sano, perfino: se non ci facciamo travolgere, se guardiamo a Goethe e non a Kleist (di Kleist godiamoci l’arte e basta); se nel sollevarci dalle fatiche del quotidiano egli ci restituisce il potere che è anche nella nostra mente, quello di trovare in noi stessi la tensione artistica, ovvero la capacità culturale pienamente umana di trasmetterci le nostre emozioni. Che questo continui perché possiamo non dimenticarci mai quale strumento fine ci abbia consegnato la storia evolutiva della nostra specie.

E qui si innesta quanto scrive Süskind di Erissimaco. Davvero la posizione di Erissimaco oggi sarebbe banale? O quanto più potente, invece, è la consapevolezza che possiamo avere della nostra storia naturale? Che è parte integrante della storia della vita sul nostro pianeta. L’amore è un “miracolo” non perché è misterioso (anche se è molto più appagante che i poeti lo cantino come tale), ma perché è un meccanismo che ci proviene da un percorso di centinaia e centinaia di milioni di anni. Perché è inscritto nella nostra carne, ben prima e con ben maggior forza che nella nostra anima, che della nostra carne è il prodotto interamente – e solamente – animale. Perché nelle nostre vene sono quegli ormoni, quegli enzimi disprezzati a risvegliare la fantasia sovreccitata dei poeti. Perché nessun’altra cosa è in grado di scuoterci come animali umani quanto la potenza dell’urlo della genetica che ci ricorda il nostro posto in questa storia che ci giunge dai primordi della vita sulla terra e che attraverso di noi ci impone di venire proseguita nel futuro. Un urlo feroce e rabbioso, l’urlo che ci rammenta che siamo vivi e cosa sia davvero la (nostra) vita. E che moriremo una volta svolto il nostro compito. Con una bestia del genere dentro, tanto piena di vigore e violenta, il misterioso mi pare impallidire. Giungere alla consapevolezza non può essere mai banale, tanto meno quando è appunto così forte e violento, così terribilmente vivo ciò che ci chiede di essere pienamente compreso, interiorizzato in ogni nostra fibra. Al netto dei poeti, certo; ma voler banalizzare la nostra natura di animali autoconsapevoli mi pare, questo sì, una banalizzazione.

Ma forse anche Süskind, nonostante l’acutissima analisi in parallelo che compie nel finale del suo scritto delle figure messianiche di Orfeo e di Cristo, non riesce del tutto a sottrarsi alla cupissima tristezza semitica che il cristianesimo ha infiltrato nella cultura occidentale; non riesce a dimostrarsi compiutamente orfico, a dare forma artistica alla natura nella sua interezza, ad accettare e comprendere la natura umana per quel che è e non per quello che la fantasia sovreccitata, questa volta di perniciosi profeti e non di poeti, inventa senza alcuna consapevolezza reale, rifiutando il nostro retaggio.

Non ho parlato molto, nello specifico, del libro, ma non me ne sono allontanato. Seppure abbia le riserve sopra espresse, la lettura del volumino è davvero stimolante e appagante, innesca così tante suggestioni e riflessioni – e il libro è così ben scritto – da essere un’avventura da fare e rifare.

Con un libro si fa l’amore. Ogni giorno in modo nuovo e diverso.